Alice nel paese delle meraviglie

Alice faba

Alice nel paese delle meraviglie

Alice nel paese delle meraviglie o meglio “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie“, è un romanzo fantastico pubblicato nel 1865 dallo scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson, conosciuto meglio con lo pseudonimo di Lewis Carroll.

offerta lampo amazon

Il racconto è pieno di allusioni a personaggi, poemetti, proverbi e avvenimenti propri dell’epoca in cui Dodgson viveva.

Il libro ha un seguito chiamato “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”. Nella maggior parte dei casi gli adattamenti teatrali e cinematografici preferiscono fondere insieme elementi dell’uno e dell’altro.

Cartone animato

Video fiaba

Audio libro

LE AVVENTURE DI ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

di Lewis Carroll

Offerte del giorno di amazon

Un pomeriggio insieme tutto d’oro,
Sull’acqua mollemente,
Mentre delle piccole inesperte braccia
La barca ne risente,
E il destino è nelle piccole mani
Riposto vanamente.
Come potete, voi tre, Grazie crudeli,
In quest’ora di languor
Pretendere il racconto da un respiro
Di tanto scarso vigor?
Che può una voce sola contro tre?
Si nega e si nega ancor?
Che «si cominci». Prima esige subito,
Col suo imperioso stile,
«Il nonsenso non ci manchi» implora Secunda, ch’è gentile,
Mentre poi Tertia fa mille domande
Con ansietà febbrile.
Silenzio! E calme, tutte quante ora,
Inseguono il mistero
Delle meraviglie nuove e i battibecchi,
In quel paese fiero,
Tra la bimba del sogno e gli animali;
Oh, sembra quasi vero!
E se la fonte dell’ultima fantasia
Gli si era prosciugata,
Chiedeva di rimandare a domani
Quella voce isolata,
«Adesso! Adesso!» dal coro veniva Di nuovo pungolata.
Così estorti furon gli strambi eventi,
Meraviglie a confronto,
Di ventura in ventura fu raggiunta
La fine del racconto.
Ciurma felice, ora si torna indietro;
Il sole è al tramonto.
Alice, bada alla semplice storia!
Riponila pian piano
Dove l’Infanzia dei sogni si infiltra
Dentro il mistico arcano
Della Memoria: è il fiore appassito Di un paese lontano.


CAPITOLO I • GIÙ NELLA TANA DEL CONIGLIO

Alice moriva di noia a starsene seduta con la sorella sulla proda, senza far niente; aveva sbirciato un paio di volte il libro che la sorella stava leggendo, ma non c’erano figure né dialoghi, «e a cosa serve un libro», pensava Alice, «senza figure né dialoghi?»

Stava dunque calcolando fra sé e sé (nei limiti concessi dal caldo di quella giornata che le dava un senso di sonnolenza e di istupidimento) se il piacere di farsi una collana di margherite fosse valsa la fatica di tirarsi in piedi per andare a raccogliere le margherite, quando d’improvviso le sfrecciò accanto un coniglio bianco dagli occhi rosa.

Del fatto in sé non c’era troppo da meravigliarsi, né Alice trovò poi troppo stravagante sentire che il Coniglio mormorava, «Ohimè! Ohimè! Farò tardi, troppo tardi!» (ripensandoci, dopo, capì che in effetti ci sarebbe stato di che stupirsi; al momento però tutto le parve perfettamente naturale); ma quando vide il Coniglio fare il gesto di estrarre un orologio dal taschino del panciotto, guardarlo e riprendere di gran lena il passo, Alice balzò in piedi, perché le era balenato nella mente che non aveva mai visto prima un coniglio con un panciotto né tanto meno con un orologio dentro al taschino, e, bruciata dalla febbre della curiosità, lo inseguì di corsa attraverso il campo dove fece appena in tempo a vederlo sparire dentro una grossa tana sotto la siepe.

Un attimo dopo, anche Alice ci si infilava dentro, senza riflettere per un attimo come avrebbe fatto a uscirne fuori.

Per un pezzo la tana correva dritta come una galleria e poi all’improvviso sprofondava, così all’improvviso che Alice non ebbe nemmeno il tempo di pensare a fermarsi e si ritrovò a capitombolare giù per un pozzo che sembrava molto profondo.

O il pozzo era assai profondo, oppure il capitombolo era assai lento, perché Alice ebbe tutto l’agio, mentre cadeva, di guardarsi attorno e di cercare di capire cosa le stesse accadendo. Prima di tutto guardò di sotto per vedere dove andava a finire, ma era troppo buio e non si vedeva niente; poi esaminò le pareti del pozzo e vide che erano piene di credenze e di scaffali: notò che qua e là c’erano mappe e quadri appesi ai chiodi. Tirò giù un vasetto da uno dei ripiani mentre gli passava davanti; portava la scritta MARMELLATA DI ARANCE, ma con sua grande delusione era vuoto. Non voleva lasciarlo cadere per paura di ammazzare chiunque si trovasse sotto, e fece in modo di appoggiarlo su un altro scaffale che si trovava a portata di mano lungo la caduta.

Lista Nascita

«Be’» rimuginava fra sé, «dopo una caduta come questa, ruzzolare giù per le scale mi sembrerà uno scherzo! Com’è coraggiosa la nostra Alice, penseranno i miei! Ah, certo da me non sentirebbero un solo lamento, nemmeno se dovessi cadere dal tetto!» (e non c’è dubbio che su questo punto avesse proprio ragione).

Giù, giù, sempre più giù. Ci sarebbe mai stata una fine a quella caduta? «Quanti chilometri avrò fatto cadendo, finora?» si domandò a voce alta. «Devo essere quasi arrivata al centro della terra. Vediamo: dovrebbero essere circa cinquemila chilometri, mi pare -» (Perché dovete sapere che Alice aveva imparato tante cose di questo genere a scuola, e, per quanto non fosse l’occasione migliore per esibire le sue conoscenze, dal momento che non c’era nessuno ad ascoltarla, tuttavia poteva sempre servire ripeterle per fare esercizio) «sì, più o meno la distanza è questa – ma chissà a che Latitudine o Longitudine sono arrivata?» (Alice non aveva la più pallida idea di cosa fosse la Latitudine, per non parlare della Longitudine, ma le sembravano delle belle parole importanti da dire).

Ripigliò subito. «E se passassi attraverso tutta quanta la terra intera! Chissà come sono buffe quelle persone che camminano a testa in giù! Gli Antipotici, mi pare -» (era molto contenta che non ci fosse nessuno ad ascoltarla, stavolta, perché la parola suonava decisamente sbagliata) «- ma dovrò domandare a qualcuno in che paese mi trovo, si capisce. Mi scusi, signora, qui siamo in Nuova Zelanda o in Australia?» (e si mise a fare un inchino mentre parlava – ve l’immaginate, fare un inchino mentre si sta cadendo nel vuoto? Ci riuscireste, voi?) «Che brutta figura farei, da bambina ignorante! No, meglio non chiedere niente; sarà pur scritto da qualche parte».

Giù, giù, sempre più giù. Non avendo niente da fare, Alice riprese la sua chiacchierata. «E Dinah? Che farà senza di me?» (Dinah era la gatta). «Speriamo che si ricordino di darle il suo piattino di latte a merenda. Cara la mia Dinah! Come vorrei che tu fossi quaggiù con me! Non ci sono topi che volino per aria, purtroppo, ma potresti sempre dar la caccia a un pipistrello, che è divertente come un topo, sai? Oppure a una gazza. Ma una gatta mangia una gazza? Mah!» Qui Alice fu presa da una strana sonnolenza e continuava a chiedersi: «Una gatta mangia una gazza? Una gatta mangia una gazza?» e a volte «Una gazza mangia una gatta?» perché, capite, non sapendo qual era la risposta giusta a nessuna delle due domande, poco importava come le formulasse.

Sentì che stava per appisolarsi e aveva appena cominciato a fare un sogno; camminava con Dinah, mano nella mano, e le chiedeva in tutta serietà: «Dinah, ti prego, dimmi la verità; hai mai mangiato una gazza?» quando, a un tratto, patapumfete! si ritrovò per terra su un mucchio di ramoscelli e foglie secche. La caduta era finita.

Alice non si era fatta niente e saltò in piedi in un attimo; alzò gli occhi in alto, ma era buio pesto; davanti c’era un altro lungo cunicolo in fondo al quale intravvide il Coniglio Bianco che correva. Non c’era un minuto da perdere. E via, veloce come il vento, Alice lo rincorse, appena in tempo per sentirlo esclamare, mentre svoltava l’angolo: «Oh, baffi e basette! Come s’è fatto tardi!» Gli stava ormai alle calcagna, ma, quando anche lei svoltò l’angolo, il Coniglio non c’era più. E Alice si ritrovò in un salone basso e lungo, illuminato da una fila di lampade che pendevano dal soffitto.

C’erano tante porte attorno al salone, ma erano chiuse a chiave, e dopo aver percorso tutto un lato fino in fondo ed essere tornata indietro lungo l’altro, provando ciascuna porta, Alice si portò tristemente nel mezzo della sala, pensando a come mai avrebbe fatto a uscirne fuori.

Di punto in bianco, si trovò davanti a un tavolino a tre gambe, tutto in vetro spesso; sopra, non c’era altro che una piccola chiave d’oro, e il primo pensiero di Alice fu che potesse aprire una delle porte del salone. Ma, ahimè! o le serrature erano troppo grandi, o la chiave era troppo piccola; sta di fatto che non ne aprì nessuna. Comunque, nel suo secondo giro attorno al salone, si trovò davanti a una tendina corta che non aveva notato prima, e dietro alla quale c’era una porticina non più alta di una trentina di centimetri: provò a infilare la piccola chiave d’oro nella serratura e con sua grande gioia vide che funzionava!

Alice aprì la porticina e scoprì che dava su un piccolo cunicolo poco più largo della tana di un topo; si mise ginocchioni e guardando attraverso il cunicolo, scorse il più bel giardino del mondo. Che voglia aveva di uscire da quel salone tetro per andare a passeggiare fra quelle aiuole di fiori risplendenti e fra quelle fontane di acqua fresca! Ma non ci infilava neanche la testa in quella porticina, «e se anche ci passassi con la testa», pensava la povera Alice, «a che servirebbe senza le spalle? Ah, se potessi riserrarmi come un telescopio! Mi basterebbe sapere qual è la prima mossa e poi, sono sicura, ci riuscirei!» Dovete capire che, essendole capitate tante cose strambe negli ultimi tempi, Alice si stava ormai convincendo che di veramente impossibile non ci fosse quasi più nulla.

Poiché era inutile aspettare accanto alla porticina, ritornò verso il tavolino, con la mezza speranza di trovarci un’altra chiave, o perlomeno un manuale che insegnasse come si fa a riserrare una persona come un telescopio; questa volta ci trovò una bottiglietta («che certamente non era qui, prima», osservò Alice), con attaccato al collo un cartellino dove c’era scritto BEVIMI in caratteri di stampa grandi e belli.

Si fa presto a dire “Bevimi”, ma la nostra saggia piccola Alice non avrebbe fatto una cosa simile alla leggera. «No, prima devo vedere» obiettò «se c’è scritto “veleno” oppure no», perché aveva letto tante storie di bambini che finivano bruciati, o mangiati dalle bestie feroci, o in altri modi poco piacevoli, e tutto perché avevano dimenticato le buone e sane regole che gli amici avevano insegnato loro, come per esempio che non devi tenere troppo a lungo in mano un attizzatoio rovente, perché alla fine ti scotti; che se tagli troppo profondamente un dito poi ti sanguina; ma soprattutto lei non aveva mai dimenticato che se trovi una bottiglia con la scritta “veleno” e te la bevi tutta o quasi, prima o poi ti senti male. Comunque, su questa bottiglia, non c’era scritto “veleno”, e Alice si azzardò a berne un sorso; il sapore era molto buono (era un misto di torta di ciliegie, crema, ananas, tacchino arrosto, caramella mou e crostino spalmato col burro) e ben presto se l’ebbe bevuta tutta.

«Che curiosa sensazione!» osservò Alice. «Di certo mi sto riserrando come un telescopio!»

E così era infatti; adesso era alta solo trenta centimetri, e si illuminò tutta al pensiero di essere della misura giusta per passare attraverso la porticina che dava sul bel giardino. Ma prima di ogni altra cosa, comunque, attese qualche minuto per vedere se si fosse impicciolita ancora di più; era un pensiero che la innervosiva, «perché potrebbe andare a finire» mugugnava fra sé, «che mi estinguo tutta, come una candela. Chissà come sarei, allora?» E cercò di figurarsi come poteva essere la fiamma di una candela quando la candela aveva finito di consumarsi, perché non le veniva in mente di aver mai visto una cosa simile.

Dopo un poco, vedendo che non succedeva niente, decise di andare subito nel giardino; ma ahimè, povera Alice, una volta giunta alla porticina, si accorse di aver dimenticato la piccola chiave d’oro, e quando tornò al tavolo per prenderla, scoprì che non ci arrivava più: la vedeva benissimo attraverso il vetro e fece tutti gli sforzi possibili per arrampicarsi su per una gamba del tavolo, ma era troppo sdrucciolevole; e quando i tentativi l’ebbero stremata, la povera piccola si mise a sedere e scoppiò in lacrime.

«Suvvia! A che ti serve piangere?» si rimproverava Alice con molta severità. «Se vuoi un consiglio, smettila subito! All’istante!» Di solito dava a se stessa degli ottimi consigli (sebbene li seguisse assai di rado) e certe volte si rimproverava con tanta durezza da farsi venire le lacrime agli occhi; si ricordava che una volta aveva cercato di tirarsi le orecchie perché s’era truffata in una partita di croquet che giocava contro se stessa, poiché questa buffa bambina amava far finta di essere due persone diverse. «Ma a cosa mi serve adesso» mugugnava la povera Alice, «far finta di essere due persone! Ormai, tutto quello che è rimasto di me forse non basta nemmeno a farne una sola, di persona rispettabile!»

Ma ben presto l’occhio le cadde su una scatolina di vetro che stava sotto il tavolino, l’aprì, c’era dentro un pasticcino con la parola MANGIAMI formata in chiare lettere con delle uvette. «D’accordo, lo mangio» disse Alice, «e se mi fa crescere, potrò prendere la chiave; se mi fa impicciolire, striscerò sotto la porta; in ogni caso, riuscirò a entrare nel giardino, e perciò non mi importa niente di quel che può accadere!»

Ne mangiò un pezzettino, mentre si chiedeva tormentosamente: «Da che parte? Da che parte? In su o in giù?» e si teneva una mano sopra la testa per controllare se stesse crescendo. Quale non fu la sua sorpresa, quando si accorse che continuava a restare della stessa dimensione! Naturalmente, non succede proprio niente quando si mangia un pasticcino; ma Alice si era ormai così abituata a non aspettarsi altro che cose fuori dall’ordinario che le sembrava troppo sciocco e noioso procedere nel modo solito della vita.

Così si mise all’opera e ben presto ebbe finito tutto il pasticcino.

CAPITOLO II • IL MARE DI LACRIME

«Che buffo, che buffissimo!» strillò Alice (era così strabiliata dalla sorpresa da dimenticarsi le regole della grammatica). «Ora mi sto allungando come il più grande telescopio che sia mai esistito! Arrivederci, piedi! (le era parso, infatti, quando si era chinata per guardare in basso, che stessero quasi per scomparire, tanto si stavano allontanando). «Oh, i miei cari piedini! Chi vi metterà le scarpe, chi vi infilerà le calze, ora, poverini? Io no, di certo, non ce la farò più! Sarò troppo lontana per prendermi cura di voi; dovrete arrangiarvi da soli – mi conviene, però trattarli con riguardo» disse fra sé Alice, «altrimenti potrebbero rifiutarsi di camminare nella direzione che voglio io! Cosa potrei fare? Farò loro un regalo tutti gli anni a Natale: un bel paio di stivali nuovi!»

E prese a pianificare l’intera faccenda, in tutti i particolari. «Ci vorrà un corriere per la spedizione» pensava, «che buffo sarà, inviare un regalo ai propri piedi! E come suonerà strano l’indirizzo!

All’egregio signor Piede Destro di Alice

Tappetino davanti al Caminetto

presso il Parafuoco

(da Alice con amore)

Povera me, quante sciocchezze sto dicendo!»

In quel preciso istante, andò a sbattere con la testa contro il soffitto del salone: infatti era ormai alta due o forse anche tre metri; afferrò in un baleno la piccola chiave d’oro e si precipitò verso la porta del giardino. Povera Alice! Dovette accontentarsi di sdraiarsi per terra, su un fianco, e di sbirciare il giardino con un occhio solo; quanto a entrarci, era diventata un’impresa più disperata che mai. Si tirò sù a sedere e ricominciò a piangere.

«Vergogna!» si rimproverava Alice. «Grande come sei» (poteva ben dirlo!) «mettersi a piangere come una fontana! Falla finita, ti dico!» Ma continuava a piangere lo stesso, versando fiumi di lacrime, tanto da formare tutt’intorno a sé un mare, profondo una decina di centimetri, e largo fin quasi a metà del salone.

Dopo un po’, Alice sentì un lieve scalpiccìo di passi in lontananza, e si affrettò ad asciugarsi gli occhi per vedere chi fosse. Era il Coniglio Bianco, di ritorno, tutto elegante, con un paio di guanti bianchi di capretto in una mano e un enorme ventaglio nell’altra, che se ne veniva trotterellando in gran fretta, borbottando tra sé: «Oh! La Duchessa, la Duchessa! Come potrà non infuriarsi, se la faccio aspettare?» Alice era così disperata che avrebbe chiesto aiuto a chiunque; così, quando il Coniglio le fu vicino, gli rivolse la parola timidamente, con un filo di voce: «Scusi, signore -». Il Coniglio trasalì violentemente, lasciò cadere per terra i guanti bianchi di capretto e il ventaglio e se la filò via a tutta velocità, sgambettando nel buio.

Alice raccolse i guanti e il ventaglio, col quale, siccome nel salone faceva un gran caldo, prese a farsi vento per tutto il tempo che continuò la sua chiacchierata. «Mamma mia! Che cose strambe mi son capitate oggi! E pensare che ieri sera era tutto normale. Magari sono stata scambiata durante la notte! Ragioniamo: ero la stessa quando mi sono svegliata stamattina? Mi pare quasi di ricordare che mi sentivo un tantino diversa. Ma se non sono più la stessa, prima di tutto occorre rispondere alla domanda: “Chi sono io?” Questo è il problema!» E cominciò a passare in rassegna tutte le altre bambine che conosceva, della sua età, per vedere se era stata scambiata per una di loro.

«Sono più che certa di non essere Ada» ragionava, «perché lei ha i capelli lunghi e ricciolini, e i miei non sono affatto ricci; e sono più che certa di non essere Mabel, perché io so un sacco di cose e lei, oh, ne sa proprio poche! Inoltre, lei è lei, e io sono io, e – oh, povera me, c’è da perderci la testa! Voglio vedere se so ancora tutte le cose che sapevo. Vediamo: quattro per cinque fa dodici, e quattro per sei fa tredici, e quattro per sette fa – oh, povera me, non arriverò mai a venti di questo passo! Comunque, la Tabellina del Per non conta: proviamo con la Geografia. Londra è la capitale di Parigi, e Parigi è la capitale di Roma, e Roma – no, no, è tutto sbagliato! Devono avermi davvero scambiata con Mabel, dopo tutto! Voglio provare a dire T’amo, o pio coccodrillo -». E tenendo le mani raccolte in grembo, come quando ripeteva la lezione, cominciò a recitare, ma le venne fuori una voce roca e strana, e le parole che uscirono non erano le stesse che aveva sempre saputo:

T’amo, o pio coccodrillo: e un sentimento

D’innocenza e di pace al cor m’infondi,

O che al fiume sciacquandoti contento

L’agil lucore alla coda secondi;

O che immobile come un monumento,

Le nere umide grinfie ai pesci ascondi,

Tanti ne accogli col sorriso lento,

Nelle fauci gentili li sprofondi.

«No, no! Non è così che dice la poesia!» esclamò la povera Alice, mentre con gli occhi gonfi di lacrime ripigliava, «Devo essere proprio Mabel alla fin fine, e mi toccherà andare a vivere in quella sua casuccia strettina, senza quasi nessun giocattolo per giocare, e, ahimè, con chissà quante lezioni da studiare! No, ho già preso una risoluzione in tal caso: se sono Mabel, me ne starò quaggiù! È inutile che si sporgano con la testa e mi gridino: “Carina, vieni su!” io mi limiterò ad alzare gli occhi e a chiedere, “E allora, chi sono io? Prima rispondete a questa domanda, e poi, se mi andrà a genio di essere quella persona, tornerò su; altrimenti me ne sto quaggiù finché non sarò qualcun altro” – però ahimè!» proruppe Alice, in un improvviso scoppio di pianto, «come vorrei che si affacciassero da quel buco! Non ne posso più di starmene qui tutta sola!»

Nel tempo che diceva così, abbassò gli occhi e guardandosi le mani, con sua grande meraviglia, si accorse di essersi infilata uno dei guantini bianchi di capretto del Coniglio. «Come ho fatto?» pensò. «Forse mi sto impicciolendo un’altra volta.» Si alzò e si avvicinò al tavolino per misurarsi; doveva essere alta poco più di mezzo metro, ma andava man mano accorciandosi sempre più: si rese subito conto che il ventaglio che stringeva fra le mani ne era la causa, e lo lasciò cadere di colpo, giusto in tempo per evitare di svanire via del tutto.

«Per un pelo!» esclamò Alice, spaventatissima di quel cambiamento improvviso, ma assai contenta di ritrovarsi ancora in vita. «E adesso, al giardino!» E si precipitò di gran corsa alla porticina; ahimè! la porticina si era richiusa, e la piccola chiave d’oro se ne stava appoggiata sul tavolo, come prima, «e le cose vanno di male in peggio», si disperava la povera bambina, «perché non sono mai stata così piccola, mai! E, parola mia, me la vedo brutta, ma brutta tanto!»

Mentre Alice pronunciava queste parole, le scivolò il piede e, in un attimo, zaffete! si ritrovò immersa fino al collo nell’acqua salata. La prima cosa che le venne in mente fu di essere caduta in mare, «e in questo caso, me ne torno indietro col treno» mormorò. (Alice era stata al mare una volta sola in vita sua, ed era arrivata alla conclusione che in genere lungo tutta la costa inglese si trovano un certo numero di casotti da bagno con le ruote a mollo dentro l’acqua, un po’ di bambini sparsi sulla spiaggia a giocare con le palette di legno, e poi una fila di villette per la villeggiatura, e dietro a queste la stazione ferroviaria.) Comunque, intuì ben presto di trovarsi nel mare di lacrime che aveva pianto quando era alta due forse anche tre metri.

«Se non avessi pianto tanto!» esclamò Alice, mentre cercava, nuotando, di raggiungere la riva. «Eccomi punita per benino, annegando nelle mie proprie lacrime! Non c’è male, come stramberia! Ma certo, oggi, ne succedono di cose strambe!»

In quel momento, avvertì qualcosa che sguazzava nell’acqua poco lontano, e si avvicinò a nuoto per vedere cosa fosse: dapprima credette che si trattasse di un tricheco o di un ippopotamo, ma riprendendo coscienza di quanto fosse piccola in quel momento, capì che era soltanto un topo, finito in mare come lei. «Sarà il caso» rifletteva Alice, «di rivolgergli la parola, a questo topo? Tutto è così strambo, quaggiù, che non ci sarebbe da stupirsi se mi rispondesse; comunque, tentar non nuoce.» E cominciò: «O Topo, sai come si esce da questo mare? A nuotare senza una meta, mi sono affaticata, o Topo!» (Alice riteneva che quello fosse il tono giusto per rivolgersi a un topo: non aveva mai fatto una cosa simile prima, ma le era venuto in mente che sulla Grammatica Latina di suo fratello c’era scritto, “Il topo – del topo – al topo – il topo – o topo!”) Il Topo la squadrò con aria alquanto interrogativa; Alice ebbe quasi l’impressione che strizzasse uno dei suoi occhietti, ma quello non disse una parola.

«Forse non parla la mia lingua» pensò Alice. «Potrebbe essere uno di quei topi francesi venuti in Inghilterra con Guglielmo il Conquistatore.» (Benché fosse ben ferrata in storia, Alice non aveva un’idea chiara di quanto tempo prima le cose fossero successe.) Allora, ripigliò: «Où est ma chatte?» che era la prima frase del suo libro di francese. Il Topo ebbe un soprassalto tale da schizzar fuori dal pelo dell’acqua, e poi si mise a tremare tutto per lo spavento. «Oh, scusami, scusami!» lo implorò Alice precipitosamente, temendo di aver offeso i sentimenti del povero animale. «Mi è del tutto uscito dalla mente che a te i gatti non piacciono.»

«Non mi piacciono?!» ripeté il Topo con una vocetta stridula e piena di sdegno. «Perché, a te piacerebbero se fossi al mio posto?»

«Be’, forse no» replicò Alice, in tono conciliante. «Non ti arrabbiare, via. Sai, mi piacerebbe fartela conoscere la nostra gatta, Dinah. Basta che la vedi una volta e ti viene subito voglia di avere un gatto. È tanto cara e buona.» Alice continuava a parlare, quasi tra sé, nuotando pigramente nell’acqua, «e se ne sta seduta accanto al fuoco a fare le fusa, è così carina, si lecca le zampine e si lava la faccia – è così morbida e soffice da tenere in braccio – ed è un portento quando acchiappa un topo – oh, scusami, scusami!» implorò

Alice, di nuovo, perché questa volta il Topo aveva tutto il pelo ritto, e non c’erano dubbi che si fosse offeso per davvero. «Non parleremo più di lei, se non vuoi.»

«Parleremo?!» strillò il Topo, che stava tremando fin sulla punta della coda. «Non son certo io che mi metto a parlare di un argomento simile. La nostra famiglia ha sempre odiato i gatti, esseri malvagi, inferiori e volgari! Non voglio più sentirli nominare!»

«Un’altra volta non lo farò più!» promise Alice, che aveva una gran voglia di cambiare argomento. «Ti piacciono – ti piacciono – i cani?» Il Topo non diede risposta, e Alice riprese con entusiasmo. «C’è un cagnolino così simpatico, vicino a casa nostra. Te lo voglio far conoscere. Un piccolo terrier con gli occhietti vispi, sai, e il pelo lungo, riccioluto e marrone! Corre a prendere le cose quando gliele lanci, e si mette seduto sulle zampe di dietro e chiede da mangiare, e tante altre cose di questo genere – non me le ricordo tutte -è il cane di un contadino. Lui dice che è utilissimo e che dovrebbe valere un centinaio di sterline! Dice che è bravo a far fuori i topi e – oh, oh, povera me!» si disperò Alice, tutta contrita. «Ecco che l’ho offeso di nuovo!» Infatti il Topo si stava allontanando da lei più in fretta che poteva, creando un gran subbuglio dentro all’acqua.

Lo chiamò allora, con una vocina dolce. «Topino caro! Torna indietro, non parleremo mai più di gatti, né di cani, se non ti vanno a genio!» Quando il Topo l’ebbe sentita, si rigirò e tornò verso di lei, nuotando lentamente. Era pallidissimo (di rabbia, pensò Alice) e disse con voce bassa e tremula: «Cerchiamo di raggiungere la riva, e poi ti racconterò la mia storia: allora capirai perché odio i cani e i gatti».

Era davvero giunto il momento di andarsene, perché il mare si era riempito di uccelli e di animali che ci erano caduti dentro: c’erano un’Anatra, un Dodo, un Lorichetto e un Aquilotto, e numerose altre bizzarre creature. Alice fece da guida, e l’intera compagnia raggiunse a nuoto la riva.

CAPITOLO III • UNA GARA ELETTORALE E LA LUNGA CODA DI UNA STORIA

Non aveva davvero un bell’aspetto la comitiva che si trovò riunita sulla riva – gli uccelli con le penne sporche di fango, gli animali con il pelo appiccicato addosso, e tutti quanti infreddoliti, irosi e impacciati.

Il primo problema, naturalmente, fu come asciugarsi. Si riunirono a consiglio a questo proposito e in capo a qualche minuto Alice si trovò a parlare familiarmente con gli altri, come se li avesse conosciuti per tutta la vita. Ebbe addirittura una discussione piuttosto lunga con il Lorichetto, che alla fine si era immusonito e andava ripetendo: «Io sono più vecchio di te, e so più cose di te». Ma Alice non era disposta a cedere senza sapere quanti anni avesse l’altro, e poiché il Lorichetto si rifiutava categoricamente di dire la sua età, la discussione finì lì.

Finalmente, intervenne il Topo, che nel gruppo sembrava godere di una certa autorità, e disse con voce alta: «Mettetevi seduti, e statemi a sentire! Pochi attimi mi basteranno per lasciarvi tutti secchi!» Subito tutti si sedettero formando un ampio cerchio, con il Topo al centro. Alice gli teneva gli occhi puntati addosso, perché temeva di buscarsi un raffreddore se non trovava subito il modo di asciugarsi.

«Ahem!» fece il Topo con aria importante. «Siete tutti pronti? Eccovi qualcosa di molto asciutto. Prego osservare il massimo silenzio! Guglielmo il Conquistatore, che aveva garantito alla propria causa l’appoggio del papa, si assicurò assai presto la sottomissione degli Inglesi, che non avevano condottieri e che negli ultimi tempi si erano assuefatti all’usurpazione e alla conquista. Edwin e Morcar, conti della Mercia e della Northumbria-».

«Brrr!» fece il Lorichetto, con un brivido.

«Prego?» disse il Topo, aggrottando le sopracciglia, ma con un tono educato. «Hai detto qualcosa?»

«No, no!» si affrettò a replicare il Lorichetto.

«Mi era parso», disse il Topo. «Procediamo. “Edwin e Morcar, conti della Mercia e della Northumbria, resero omaggio al conquistatore, e persino Stigand, il patriottico arcivescovo di Canterbury, trovò la cosa conveniente -“».

«Trovò cosa?» domandò l’Anatra.

«Trovò la cosa» replicò il Topo piuttosto seccato, «immagino che tu sappia che cosa sia una cosa».

«So che cos’è una cosa quando la trovo» disse l’Anatra: «e, di solito è una rana o un verme. La mia domanda è che cosa trovò l’arcivescovo?»

Il Topo sorvolò su questa domanda, ma si affrettò a proseguire. «”- trovò la cosa conveniente e andò incontro a Guglielmo scortato da Edgar Atheling per offrirgli spontaneamente la corona. Al principio, Guglielmo si comportò con molta correttezza. Ma l’insolenza dei suoi Normanni -” Come ti senti, ora, cara?» si interruppe, rivolgendosi ad Alice.

«Più bagnata che mai» replicò Alice malinconicamente, «non mi sono asciugata affatto».

«In tal caso» interloquì solennemente il Dodo, alzandosi in piedi, «propongo di aggiornare l’assemblea per deliberare l’adozione immediata di più energici rimedi -».

«Parla come mangi!» lo redarguì l’Aquilotto. «Non so cosa vogliano dire almeno la metà di quei paroloni, e quel che è peggio, sono sicuro che non lo sai nemmeno tu!» E l’Aquilotto chinò il capo per nascondere un sorriso: qualche altro uccello ridacchiò esplicitamente.

«Ciò che volevo dire» rispose il Dodo, risentito, «era che il modo migliore per asciugarsi, sarebbe una Gara Elettorale.»

«Che cos’è una Gara Elettorale?» domandò Alice, non tanto perché desiderasse saperlo, quanto perché il Dodo si era interrotto, come se si aspettasse qualche domanda, e nessun altro manifestava l’intenzione di aprir bocca.

«Ebbene» disse il Dodo, «per spiegarvela, il modo migliore è di mettersi a farla». (E, nel caso vi venga voglia di provare questo gioco, qualche sera d’inverno, vi racconterò cosa fece il Dodo.)

Prima di tutto tracciò una pista press’a poco a forma di cerchio («non importa se la forma non è perfetta» spiegò) e poi tutta la compagnia si distribuì lungo la pista, un po’ qua e un po’ là. Non ci fu il grido: «Uno, due, tre, via!», ma uno poteva cominciare a correre quando ne aveva voglia, e decideva di smettere quando gli tornava comodo, tanto che non fu facile capire quando la gara fosse finita. Comunque, dopo che ebbero corso per una mezz’ora, e si furono tutti asciugati, improvvisamente il Dodo urlò: «Fine della gara!» e tutti si strinsero attorno a lui, ansimando e chiedendo: «Chi ha vinto?»

Questa era una domanda alla quale il Dodo non sapeva rispondere senza farci una pensata e ristette per un lungo momento con un dito premuto sulla fronte (la posizione che ha Shakespeare, di solito, nei quadri che lo ritraggono), mentre gli altri aspettavano in silenzio. Finalmente, il Dodo dichiarò: «Ciascuno di voi ha vinto, e tutti dovete avere un premio».

«Ma chi li darà, i premi?» chiese all’unisono un coro di voci.

«Be’, lei, naturalmente» rispose il Dodo, indicando Alice, e l’intera compagnia le si affollò attorno, facendo una gran confusione e gridando: «I premi! I premi!»

Alice non sapeva proprio cosa fare e, disperata, si ficcò una mano in tasca, ne estrasse una scatola di canditi (per fortuna, non vi era entrata dentro l’acqua salata) e li distribuì in giro come premi. Ce n’era esattamente uno per ciascuno.

«Ma anche lei deve avere un premio, non vi pare?» interloquì il Topo.

«Certamente» replicò il Dodo con molta gravità. «Che cos’altro hai in tasca?» aggiunse, rivolgendosi ad Alice.

«Soltanto un ditale» rispose tristemente Alice.

«Dallo qua» disse il Dodo.

Allora tutti si strinsero attorno a lei, ancora una volta, mentre il Dodo le porgeva solennemente il ditale, dicendo: «Ci onoriamo di consegnarti questo elegante ditale» e appena il breve discorso fu concluso, tutti applaudirono.

Alice giudicò l’intera faccenda completamente assurda, ma avevano tutti una faccia così seria che non osò mettersi a ridere: e poiché non le venne in mente niente da dire, fece semplicemente un inchino e ritirò il ditale, con l’espressione più solenne che le riuscì di fare.

Non rimaneva che mangiare i canditi, cosa che suscitò un certo trambusto, perché gli uccelli più grandi si lamentavano di non aver neanche sentito il sapore del loro, mentre i più piccoli si strozzarono e bisognò dar loro qualche pacca sulla schiena. In ogni modo finì anche questa, e si rimisero tutti in cerchio, seduti, e implorarono il Topo di raccontare ancora qualcosa.

«Mi hai promesso la storia della tua famiglia, ricordi?» disse Alice, «e del perché odi così tanto i C e i G» aggiunse in un sussurro, con un certo timore di vederlo offendersi un’altra volta.

«Sapeste che storia triste, con una lunga coda di interminabili vicende!» dichiarò il Topo e volgendosi verso Alice, sospirò.

«Una coda lunga davvero» replicò Alice, che aveva abbassato gli occhi e guardava meravigliata la coda del Topo, «ma perché è diventata triste?» E continuò a ponzare su questo dilemma, mentre il Topo continuava a parlare, così che la sua idea della storia fu press’a poco questa:

«Furia disse a un topino Incontrato al mattino: “Facciamo un tribunale, E poi anche il processo! E non ti rifiutare, Ti debbo condannare! Oggi è un giorno noioso E mi sento depresso.” Il topo all’imbroglione: “Che storia da burlone! I processi si fanno Con giudice e giuria!” “Son giudice e giuria!” Fu del can la follia: “Son io tutta la legge; e ti condanno a morte!”»

«Tu non segui il filo!» esclamò il Topo aspramente, rivolgendosi ad Alice. «A cosa stavi pensando?»

«Scusami» rispose Alice umile umile, «In realtà seguivo proprio il filo. Sei alla quinta curvatura: le ultime si van facendo più piccole, hai notato?»

«No! Non noto niente!» strillò il Topo con voce acuta e alquanto furiosa.

«Un nodo!» esclamò Alice, sempre desiderosa di rendersi utile, guardandosi attorno piena di sollecitudine. «Oh, lascia che ti aiuti a scioglierlo!»

«Neanche per sogno!» replicò il Topo, mentre si alzava in piedi e se ne andava via. «Tutte queste tue assurdità sono un insulto, per me!»

«Ma io non volevo!» lo implorò la povera Alice. «Certo che ti offendi facilmente, tu!»

Per tutta risposta, il Topo emise un grugnito.

«Per favore, torna indietro; facci sentire la fine della tua storia!» cercò di richiamarlo Alice. E tutti gli altri si aggiunsero in coro: «Sì, torna! Torna!» Ma il Topo rispose con un gesto spazientito del capo e affrettò il passo.

«Che peccato che se ne sia andato!» sospirò il Lorichetto, appena lo vide sparire. E una vecchia Mamma Granchio colse l’occasione per ammonire la figlia: «Vedi, mia cara? Impara la lezione; non si deve mai perdere la pazienza!»

«Stai un po’ zitta, mamma!» replicò la Granchiolina, con una certa stizza. «Tu faresti perdere la pazienza anche a un’ostrica!»

«Se ci fosse Dinah qui con me!» disse Alice a voce alta, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Lei, sì, che saprebbe come fare per riportarmelo indietro!»

«E chi è Dinah, se non chiedo troppo?» domandò il Lorichetto.

Alice rispose con entusiasmo, perché era sempre pronta a parlare della sua gattina preferita. «Dinah è la nostra gatta. Ed è un portento per dare la caccia ai topi, non ve lo potete immaginare! E gli uccelli, poi! Se la vedeste! Non fa in tempo ad adocchiarne uno, che se l’è subito mangiato!»

Questo discorso provocò un notevole scompiglio in tutta la compagnia. Certi uccelli se la svignarono immediatamente: una vecchia Gazza si intabarrò con cura meticolosa, mentre diceva «Me ne devo proprio andare; l’aria della notte mi fa male alla gola!» e un Canarino richiamò tutti i figlioletti con una vocetta tremula: «Andiamocene, miei cari! Dovreste essere già a letto!» Chi con un pretesto, chi con un altro, se ne andarono tutti, e Alice rimase sola.

«Non avrei dovuto parlare di Dinah!» mormorò tra sé, piena di malinconia. «Non piace a nessuno, quaggiù, e invece è la gatta più buona che ci sia al mondo! Oh, cara la mia Dinah! Chissà quando la rivedrò!» E qui la povera Alice ricominciò a piangere, perché si sentiva molto sola e depressa. Poco dopo, comunque, sentì di nuovo un lieve scalpiccìo di passi in lontananza, e subito alzò gli occhi ansiosamente, con la mezza speranza che il Topo avesse cambiato idea e stesse ritornando indietro per finire la sua storia.

CAPITOLO IV • IL CONIGLIO EQUIVOCA COL LUCERTOLIN

Era il Coniglio Bianco che se ne tornava indietro un’altra volta, trotterellando con calma e guardandosi attorno ansiosamente come se avesse smarrito qualcosa, e Alice sentì che borbottava fra sé e sé: «La Duchessa! La Duchessa! Oh, zampe zampette! Oh, pelo e basette! Mi farà giustiziare di certo, come è vero che i furetti sono furetti! Ma dove li avrò messi?» Per Alice fu subito chiaro che il Coniglio stava cercando il ventaglio e i guanti bianchi di capretto, e, volonterosa, si diede da fare per aiutarlo, ma non c’era verso di trovarli – era cambiato tutto dopo la nuotata in mare, e il grande salone col tavolino di vetro e la porticina erano svaniti completamente.

Ben presto il Coniglio si avvide della presenza di Alice, e l’apostrofò rudemente: «Ehi, Mary Ann, che ci fai qua fuori? Corri subito a casa e portami un paio di guanti e un ventaglio! Svelta, sbrigati!» Alice ne fu talmente spaventata che partì subito di corsa nella direzione indicata dal Coniglio, senza nemmeno cercare di chiarire l’equivoco che si era creato.

«Mi ha preso per la sua cameriera» diceva fra sé, mentre correva. «Chissà come sarà sorpreso quando scoprirà chi sono! Mi conviene, in ogni caso, portargli il ventaglio e i guanti – ammesso che li trovi». Nel tempo che diceva queste cose, giunse davanti a una casetta tutta linda, con una targa d’ottone lucentissima sulla porta, sulla quale si leggeva il nome CONIGLIO B. Entrò senza bussare e corse al piano di sopra, con una gran paura di incontrare la vera Mary Ann e di essere buttata fuori di casa prima di mettere le mani sul ventaglio e sui guanti.

«Che cosa stramba» mormorava Alice fra sé e sé, «fare commissioni per un coniglio! Tra poco, anche Dinah mi manderà in giro a fare commissioni!» E prese a fantasticare su come si sarebbe svolta la faccenda: «”Signorina Alice! Venga subito qua e si prepari per la passeggiata!” “Un minuto solo, tata! Devo tener d’occhio questa tana di topo, finché Dinah non sarà di ritorno; guai se il topo scappa!” Sarà difficile» rifletteva Alice, «che lascino stare Dinah in casa, se dovesse cominciare a impartire ordini in quel modo!»

A questo punto, si era intrufolata in una graziosa stanzetta con un tavolino accanto alla finestra, sopra il quale (come aveva immaginato) c’erano un ventaglio e due o tre paia di guantini bianchi di capretto: afferrò il ventaglio e un paio di guanti, e stava già per uscire dalla stanza quando le cadde l’occhio su una bottiglietta vicino allo specchio. Non c’era nessun cartellino, questa volta, con la scritta BEVIMI ma nondimeno la stappò e se la portò alle labbra. «Tutte le volte che mangio o bevo qualcosa» disse a se stessa, «mi succede qualcosa di interessante: voglio vedere che effetto fa questa bottiglia. Spero vivamente che mi faccia crescere, perché non ne posso più di essere così piccina!»

E così fu, infatti, ma con una velocità fulminea: non era ancora arrivata a berne la metà, che si sentì la testa premere contro il soffitto, e si dovette chinare per evitare di rompersi l’osso del collo. Subito depose la bottiglietta, dicendo:

«Basta così – speriamo di non continuare a crescere – Stando così le cose, ora non potrei nemmeno di uscire dalla porta – Non avrei dovuto berne così tanta!»

Ahimè! Era troppo tardi per le recriminazioni! Continuò a crescere e a crescere, e presto dovette mettersi in ginocchio sul pavimento: un attimo dopo non ebbe più spazio nemmeno per quello e provò a sdraiarsi ficcando un gomito contro la porta e passandosi l’altro braccio attorno alla testa. Ma continuava a crescere, e come ultima risorsa, sporse un braccio fuori dalla finestra e infilò un piede su per il camino, dicendo: «Più di così, non so che fare; succeda quel che succeda. Che ne sarà di me?»

Per fortuna, l’effetto della bottiglietta magica si era ormai esaurito, e Alice aveva smesso di crescere; tuttavia era in una posizione alquanto scomoda e di uscire dalla stanza non se ne parlava proprio: naturalmente non era contenta.

«Si stava meglio a casa» pensava la povera Alice, «là, non mi capitava di diventare troppo grande o troppo piccola, né di farmi comandare da topi e conigli. Quasi quasi mi rincresce di essermi infilata giù per la tana del coniglio – eppure – eppure – c’è qualcosa di curioso in questo genere di vita! Che cosa mi può essere successo? Non capisco. Tutte le volte che leggevo una favola, mi immaginavo che quelle cose non potessero succedere, e invece eccomi qua, proprio nel bel mezzo di una favola! Dovrebbero scrivere un libro su di me, eccome se dovrebbero! Quando sarò grande, lo scriverò io – ma io sono già grande», aggiunse addoloratissima, «perlomeno non c’è spazio per diventare più grande di così, qui!»

«Ma allora» andava ragionando Alice, «vuol forse dire che non crescerò più? Non sarebbe male, in un certo senso – non diventare mai vecchia – e tuttavia, uhm – aver sempre compiti da fare! Ah, quello non mi piacerebbe proprio!»

«Alice, Alice! Che sciocchina!» si rispondeva da sola. «Come puoi metterti a fare i compiti, qui? Quasi non c’è spazio per te, figurati per i libri di scuola!»

E così parlava da sola, prendendo prima una parte e poi l’altra, riuscendo tutto sommato a mettere assieme una bella conversazione, ma dopo qualche minuto le giunse una voce dall’esterno e si interruppe per ascoltare.

«Mary Ann! Mary Ann!» diceva la voce. «I miei guanti, sbrigati!» Poi sentì dei passettini rapidi che salivano sù per le scale. Era il Coniglio che veniva a cercarla, e Alice si mise a tremare così forte da scuotere tutta la casa: non si ricordava che in quel momento era più grande del Coniglio almeno di un migliaio di volte e non aveva ragione di temerlo.

Il Coniglio era arrivato davanti alla porta e cercava di aprirla; ma siccome la porta si apriva verso l’interno e Alice ci teneva il gomito ben premuto contro, quel tentativo si rivelò un fallimento. «Allora, faccio il giro della casa e entro dalla finestra».

«Tu non ci entri proprio dalla finestra!» pensò Alice, e, appena le parve che il Coniglio fosse arrivato sotto la finestra, tese la mano e cercò di afferrarlo. Prese solo un pugno d’aria, ma udì un gridolino e un leggero tonfo, e un rovinio di vetri rotti, dal quale dedusse che probabilmente il Coniglio era caduto sopra una serra per i cetrioli o qualcosa del genere.

Poi le giunse il suono iroso della voce – era il Coniglio – «Pat! Pat! Dove ti sei cacciato?» E poi una voce che non aveva mai udito prima: «Son sempre qui, certo che son qui! Sto nell’orto a zappare per raccogliere le mele, signore!»

«Nell’orto a zappare per raccogliere le mele!? Che asino!» replicò il Coniglio, ancora più stizzito. «Vieni ad aiutarmi! Tirami fuori da qui!» (Rumore di altri vetri rotti.)

«E ora, dimmi, Pat, che cosa vedi alla finestra?»

«Ah, sì, vedo, vedo! Vedo un braccio, signore!» (Lo pronunciò «brascio».)

«Come sarebbe a dire un braccio, somaro! Hai mai visto un braccio di quelle dimensioni? Riempie tutta la finestra!»

«La riempie, sì, signore, ma è pur sempre un braccio».

«Be’, in ogni modo non è quello il suo posto: vai a prenderlo e portalo via!»

Ci fu poi un lungo silenzio, e Alice percepì solo qualche sussurro di tanto in tanto, del tipo: «Eh, no, non mi garba, signore, proprio no!» «Fai come ti dico io, fifone!» e alla fine Alice allungò di nuovo la mano e cercò di afferrarli con un colpo secco. Questa volta ci furono due gridolini e un altro rovinio di vetri. «Chissà quanti vetri hanno rotto a quella serra di cetrioli!» pensò Alice. «Cosa combineranno adesso? Almeno ci riuscissero a tirarmi fuori dalla finestra! Non voglio certo star qui in eterno!» Se ne stette in attesa per un po’ senza più sentire altri rumori: infine le giunse il roco cigolare delle piccole ruote di una carriola assieme al chiacchiericcio di tante voci diverse: tese le orecchie per afferrarne le parole: «Dov’è l’altra scala? – Credevo di doverne portare solo una. L’altra, l’ha portata Bill – Bill! Ecco, bravo, mettila qui! – Bene, appoggiatele a questo angolo – No, legatele insieme, prima – Ah, non arrivano neanche a mezza altezza – Ma sì, può anche andare! Non facciamo troppo i pignoli – Prendi, Bill! Afferra questa fune – Chissà se il tetto tiene – Attenzione a quella tegola: non è fissata bene – Sta cadendo! Giù la testa! (un tonfo sonoro) – Chi è stato? – Bill, ci scommetto! – Chi va giù per il camino? – Ah, no. Io no. Ci vai tu! – Neanche per sogno! – Ci andrà Bill – Vedi, Bill, il padrone ha detto che ci vai tu giù per il camino!»

«Dunque ci viene Bill giù per il camino, eh?» ripeté Alice fra sé. «Gli tocca far di tutto, a Bill! Non vorrei essere al suo posto per un mucchio di ragioni: qui il camino è molto stretto, ma qualche calcio penso di poterlo tirare!»

Ritrasse il piede più che poté, e attese finché non sentì un animaletto (non sapeva di che genere fosse) che, sgrattando e strusciando, si veniva calando giù per il camino; e allora mentre mormorava fra sé e sé: «Ecco Bill», tirò un calcione secco, e stette in attesa di quello che sarebbe successo dopo.

La prima cosa che udì fu un coro generale di «Ecco Bill che vola!», poi la voce isolata del Coniglio – «Prendetelo, là, vicino alla siepe!» poi silenzio, e infine di nuovo una confusione di voci – Sorreggetegli la testa – ora, il brandy – non soffocatelo – ehi, amico, com’è andata? Cosa ti è successo? Raccontaci tutto!»

Da ultimo, un vocino fievole e stridulo («Deve essere Bill», pensò Alice): «Bah, non so cosa dirvi – Non ne voglio più, grazie; sto meglio adesso – ma sono troppo frastornato per parlare – so solo che mi è scoppiato sotto una specie di misirizzi e mi son trovato scaraventato in aria come un razzo!»

«Come un razzo, davvero!» ripeterono gli altri.

«Dobbiamo dar fuoco alla casa!» disse la voce del Coniglio, e Alice urlò con quanto fiato aveva in corpo: «Se ci provate, vi metto Dinah alle costole!»

Ci fu un silenzio di tomba. E Alice pensava fra sé: «Che cosa faranno adesso? Se avessero un po’ di buon senso, toglierebbero il tetto». Dopo un paio di minuti, ricominciarono a muoversi, e Alice sentì il Coniglio che diceva: «Basterà una carriolata, per cominciare».

«Una carriolata di cosa?» si domandò Alice. Ma non dovette attendere a lungo la risposta, perché subito dopo una pioggia di sassolini penetrò crepitando attraverso la finestra colpendola in parte anche sul viso. «Ci penso io a farli smettere» disse fra sé e gridò. «Non azzardatevi a farlo un’altra volta!» producendo un altro silenzio mortale.

Alice si accorse con una certa meraviglia che i sassolini sul pavimento si stavano tutti trasformando in pasticcini, e una brillante idea le attraversò la mente. «Se ne mangio uno» pensò «cambio dimensioni un’altra volta, di sicuro; e siccome più grande di così non posso diventare, mi farà certo diventare più piccola».

Così ne trangugiò uno, ed ebbe la soddisfazione di vedere che stava impicciolendo. Appena fu abbastanza piccola per passare attraverso la porta, uscì di corsa fuori dalla casa e trovò ad aspettarla fuori un folto gruppo di animaletti e uccellini. In mezzo c’era il povero Lucertolino, Bill, sorretto da due porcellini d’India, che gli davano qualcosa da bere da una bottiglia. Appena videro comparire Alice, la presero tutti d’assalto, ma lei scappò via correndo a gambe levate e trovò rifugio in un fitto bosco.

«La prima cosa da fare» diceva Alice fra sé e sé, mentre vagava nel bosco, «è di crescere finché non torno alla mia solita statura; e come seconda cosa devo trovare la strada per andare in quel bel giardino. Mi pare che questo sia il piano migliore.»

Senza alcun dubbio, era un piano eccellente, e disposto con grande precisione e semplicità; l’unica difficoltà consisteva nel fatto che non aveva la minima idea di come realizzarlo; e mentre si guardava attorno ansiosa scrutando fra gli alberi, le giunse da sopra la testa qualcosa come un guaito, che le fece alzare gli occhi con apprensione.

Un cucciolotto enorme la stava guardando dall’alto dei suoi occhioni spalancati, mentre cercava timidamente di stendere una zampa per toccarla. «Quanto sei caruccio!» gli disse Alice in tono propiziatorio, e cercò di fargli un fischio con quanto fiato aveva in corpo, ma era terrorizzata dal pensiero che fosse un cane affamato, perché in tal caso l’avrebbe divorata in un boccone, per quante moine lei gli facesse.

Quasi senza rendersene conto, raccolse un bastoncino da terra e lo tese al cucciolo: quello spiccò un salto in aria all’improvviso, levando le quattro zampe contemporaneamente, e con un uggiolìo di piacere si precipitò sul bastoncino e fece per azzannarlo. Alice cercò protezione dietro un cardo, per non essere travolta, e, appena sporse la testa dall’altra parte, il cucciolo si gettò di nuovo sul bastoncino, finendo a gambe all’aria nella foga. Pensando che era come giocare a rimpiattino con un cavallo da tiro col rischio di essere calpestata da un momento all’altro, Alice rifece un semigiro attorno al cardo. Il cucciolo iniziò una serie di brevi assalti al bastoncino: ogni volta faceva un piccolo balzo in avanti, e poi retrocedeva per un lungo pezzo, abbaiando rocamente tutto il tempo, finché, ansante, con la lingua penzoloni e i grandi occhi semichiusi, non si accucciò a terra a una certa distanza.

Era un’ottima occasione per tentare la fuga, e subito Alice attaccò a correre e non smise finché non fu del tutto esausta e senza fiato, e finché l’abbaiare del cucciolo non fu che un fievole suono lontano.

«Però era tanto un bel cucciolo!» disse Alice, appoggiandosi a un ranuncolo, che le fornì una delle sue foglie per farsi vento. «Come mi sarebbe piaciuto insegnargli dei giochi, se – se soltanto fossi stata grande abbastanza! Ahimè, mi ero quasi dimenticata che devo ricominciare a crescere! Vediamo – che cosa si deve fare? Credo che dovrei mangiare o bere qualcosa; ma il problema è “Che cosa?”»

Il problema era certamente «Che cosa?». Alice guardò i fiori e i fili d’erba attorno, ma non vide niente che potesse essere la cosa giusta da mangiare o da bere in quella situazione. C’era un grande fungo che si ergeva lì accanto, alto press’a poco come lei, e dopo averci guardato sotto, e sui lati, e poi anche dietro, le venne in mente che ci poteva anche guardare sopra.

Si alzò sulle punte dei piedi, e sbirciò oltre il bordo, e subito incrociò lo sguardo di un grande bruco azzurro, che se ne stava seduto sopra il fungo, con le braccia conserte, fumando immobile un lungo narghilè, senza minimamente curarsi né di lei né di qualsiasi altra cosa.

CAPITOLO V • I CONSIGLI DI UN BRUCO

Il Bruco e Alice si guardarono negli occhi per un po’, in silenzio: infine il Bruco si tolse di bocca il narghilè e le rivolse la parola con voce languida e sonnolenta.

«E tu chi sei?» domandò il Bruco.

Non era promettente come apertura di dialogo. Intimidita, Alice rispose: «Io – a questo punto quasi non lo so più, signore – o meglio, so chi ero stamattina quando mi sono alzata, ma da allora credo di essere stata cambiata più di una volta».

«Che vuoi dire con questo?» domandò il Bruco, severamente. «Spiegati!»

«Vede, signore, non si può spiegare ciò che non si conosce» rispose Alice, «e io non mi conosco più, capisce?»

«Non capisco» replicò il Bruco.

«Mi dispiace, non glielo so dire meglio di così» disse Alice, «perché nemmeno io ci capisco niente, tanto per cominciare, e inoltre, a cambiare aspetto tante volte in un giorno, si finisce per avere una gran confusione in testa!»

«Nessuna confusione» obiettò il Bruco.

«Be’, forse lei non ha ancora provato» disse Alice, «ma quando dovrà trasformarsi in crisalide – lo sa che le succederà un giorno o l’altro – e poi in una farfalla, allora vedrà che anche lei si sentirà un po’ stranito».

«Neanche per idea» rispose il Bruco.

«Be’, forse lei avrà delle sensazioni diverse» disse Alice, «tutto quello che so, è che io mi sentirei stranita».

«Tu!» l’apostrofò il Bruco con disprezzo. «E tu chi sei?»

Il che li riportò di bel nuovo all’inizio della loro conversazione. Alice era un po’ irritata per le risposte brevissime che le dava il Bruco; si drizzò sulla schiena e disse con un tono molto grave: «Credo che spetti a lei dirmi per primo chi è».

«Perché?» replicò il Bruco.

Era un’altra domanda imbarazzante: e siccome non le veniva in mente una ragione valida e il Bruco era decisamente di cattivo umore, Alice si voltò per andarsene.

«Stai qui!» la richiamò il Bruco. «Ho qualcosa di importante da dirti!»

Questo lasciava presagire qualcosa di buono. Alice si girò di nuovo e tornò sui suoi

passi.

«Tieni i nervi a posto» sentenziò il Bruco.

«Tutto qui?» domandò Alice, cercando di soffocare la stizza.

«No» rispose il Bruco.

Alice, che non aveva premura, pensò che tanto valeva aspettare: poteva ben darsi che il Bruco alla fine dicesse qualcosa che valeva la pena di ascoltare. Il Bruco espirò varie boccate di fumo senza parlare per qualche minuto, e infine liberò le braccia che teneva conserte, si tolse di bocca il narghilè e disse: «Allora, tu ritieni di essere cambiata, eh?»

«Temo di sì, signore» rispose Alice. «Non ricordo più le cose che sapevo – e non riesco a mantenere la stessa statura per più di dieci minuti!»

«Quali cose non ricordi più?» domandò il Bruco.

«Be’, ho provato a ripetere T’amo, o pio bove, ma mi è venuta tutta diversa!» rispose Alice con una voce carica di malinconia.

«Recitami Sei vecchio, pa’ Guglielmo» le ordinò il Bruco. Alice mise le braccia conserte, e cominciò:

«Sei vecchio, pa’ Guglielmo» – gli disse il giovanotto, «Ma coi capelli bianchi – vuoi fare il bel maschiotto. A capo in giù per terra – ti vedo ritto stare;

È questo quel che a un vecchio – è conveniente fare?»

«Quand’ero giovanotto» – rispose il vecchio al figlio, «temevo nel cervello – nascesse uno scompiglio.

Ma ormai che so per certo – che in zucca non ho niente,

Lo faccio e lo rifaccio – sì, spudoratamente».

«Come ho già detto prima – tu sei di certo vecchio», il giovane gli disse – «e ingrassato parecchio. Eppure t’arrovesci – in un salto mortale.

Or, mi domando se – c’è una ragione. E quale?»

«Quand’ero giovanotto» – il saggio gli rispose, scuotendo un poco il capo – «con abbondante dose mi ungevo dell’unguento – che i muscoli fa sciolti. Due lire tre vasetti – te li vendo, mi ascolti?»

«Vecchio lo sei, papà – e fiacche hai le mascelle, Dovresti masticare – sol calde minestrelle.

Pur ti mangiasti un’oca – con l’ossa e il becco intero».

Soggiunse il giovanotto – «Or spiegami il mistero».

«Quand’ero giovanotto – studiai l’avvocatura; Mia moglie mi faceva – la contropartitura; Ciò dette alle ganasce – tal forza muscolare,

Che ora potrei anche i sassi – tranquillo divorare». «Sei vecchio, pa’ Guglielmo» – riprese il ragazzino, «cogli occhi, come un tempo – non vedi più benino. Ma in punta del tuo naso – tieni ritta un’anguilla. Mi dici chi ti dà – del genio la scintilla?»

«Risposi a tre domande. – Mi par che basta, e avanza! E trovo disdicevole – questa tua arroganza!

Credi che mi divertano – le sciocche tue questioni?

Via, smetti, o per le scale – ti mando ruzzoloni!»

«Non l’hai detta bene» osservò il Bruco.

«Oh, no davvero! Credo» disse Alice, timidamente, «d’aver sbagliato qualche parola.»

«Era tutta sbagliata, da cima a fondo» replicò il Bruco con tono deciso; e ci fu un silenzio che durò qualche minuto.

Fu il Bruco a parlare per primo.

«Di che statura vorresti essere?» le domandò.

«Oh, non ci tengo molto alla statura» rispose prontamente Alice; «è solo che non fa piacere continuare a cambiare così spesso, capisce?»

«Io non capisco proprio» replicò il Bruco.

Alice tacque: mai era stata tanto contraddetta in vita sua, e sentiva che le stavano per saltare i nervi.

«Ti va bene come sei adesso?» chiese il Bruco.

«Be’, preferirei essere un pochino più grande, signore, se non le spiace» rispose Alice. «Sette centimetri è davvero una miseria, come statura.»

«È una statura bellissima!» replicò il Bruco, stizzito, ergendosi dritto in tutta la sua lunghezza mentre parlava (era alto esattamente sette centimetri).

«Ma io non ci sono abituata!» si lamentò la povera Alice con tono piagnucoloso. Intanto, pensava fra sé: «Ma come sono suscettibili, queste creature!»

«Ti ci abituerai col tempo» disse il Bruco, e, portatosi il narghilè alla bocca, riprese a fumare.

Questa volta Alice aspettò pazientemente che l’altro decidesse di rimettersi a parlare. Nel giro di un paio di minuti, il Bruco si tolse di bocca il narghilè, tirò qualche sbadiglio, e si dette una scrollatina. Poi scivolò giù dal fungo e si allontanò strisciando in mezzo all’erba, dicendo solo: «Un lato ti farà diventare più grande, l’altro più piccola».

«Un lato di che cosa? L’altro lato di che cosa?» pensò Alice fra sé e sé.

«Del fungo» rispose il Bruco, proprio come se lei avesse fatto la domanda a voce alta, e in un attimo scomparve alla vista.

Alice contemplò il fungo pensosamente per un minuto, cercando di indovinare quali fossero i due lati del fungo, e, siccome era perfettamente rotondo, il problema non era di facile soluzione. Comunque, alla fine allargò le braccia e tendendole il più possibile, abbracciò il fungo e ne staccò dal bordo un pezzettino per parte con ciascuna mano.

«E adesso, quale pezzetto per quale direzione?» si chiese, e rosicchiò un angolino del pezzetto che teneva nella destra per provarne l’effetto. Fu questione di un attimo, e sentì un colpo violento sotto il mento: era andata a sbattere contro il proprio piede!

Quel cambiamento improvviso la spaventò moltissimo, ma si rese conto che non c’era tempo da perdere, perché si andava accorciando sempre più in fretta: si diede subito da fare per mangiare un po’ dell’altro pezzetto. Il mento era pressato con tanta forza contro il piede che quasi non c’era spazio per aprire la bocca; ma alla fine ci riuscì e ingoiò un morso dal pezzetto che teneva nella sinistra.

«Ah, la testa libera, finalmente!» esclamò Alice con un sospiro di sollievo, che si trasformò in allarme un istante dopo, appena si accorse che non riusciva più a capire dove avesse lasciato le spalle: guardando sotto di sé, vedeva solo il lungo, incommensurabile protendersi del collo che si ergeva come uno stelo dal mare di foglie verdi che giaceva giù in basso sotto di lei.

«Cosa sarà tutto quel verde?» si domandava Alice. «E dove saranno finite le mie spalle? E le mie mani? Manine mie, perché mai non riesco a vedervi?» Mentre così parlava, cercava di muoverle, ma non ottenne altro risultato che un lieve tremolare del verde giù in basso.

Poiché era chiaro che non c’era modo di portare le mani alla testa, cercò allora di portare la testa giù in basso fino alle mani, e con sua grande gioia scoprì che il collo si piegava docilmente in qualsiasi direzione, come un serpente. Era appena riuscita a chinarlo verso il basso, descrivendo un graziosissimo zig zag, e stava quasi per tuffarsi in mezzo al verde, che, scoprì, non era altro che la cima di quegli stessi alberi in mezzo ai quali si trovava poco prima, quando un sibilo acuto la costrinse a ritrarsi di scatto: un enorme piccione si era scagliato contro il suo viso e la percuoteva violentemente con le ali.

«Serpente!» strillava il Piccione.

«Non sono un Serpente!» esclamò Alice, sdegnata. «Lasciami stare!»

«Serpente! Serpente!» ripeté il Piccione, ma con un tono più ammansito, e soggiunse, quasi in un singhiozzo. «Le ho tentate tutte, ma non si riesce a trovare una sistemazione che sia conveniente per tutti!»

«Non capisco: di cosa stai parlando?» domandò Alice.

«Ho provato le radici degli alberi, ho provato le sponde, ho provato i cespugli» continuava il Piccione, senza farle caso; «ma quei Serpenti! Non c’è modo di adattarsi, con quelli!»

Alice era sempre più perplessa, ma preferì lasciar sfogare il Piccione e non dire niente.

«Come se non fosse già un problema covare le uova» diceva il Piccione: «devo anche stare sempre sul chi vive notte e giorno per paura dei Serpenti! Tre settimane, sono tre settimane che non chiudo occhio!»

«Mi dispiace per le tue preoccupazioni» disse Alice, che cominciava a capire.

«E proprio quando mi prendo l’albero più alto che ci sia nel bosco» continuava il Piccione, con una voce sempre più strozzata, «proprio quando mi illudevo di essermene liberato, ecco che questi arrivano strisciando anche dal cielo! Uhi! Serpente!»

«Ma io non sono un Serpente, te l’assicuro!» esclamò Alice. «Io sono – sono una -».

«Ebbene! Che cosa sei?» disse il Piccione. «Stai cercando di inventar su qualcosa, eh, lo vedo!»

«Io – io sono una bambina» rispose Alice, ma aveva un’aria piuttosto dubbiosa, perché le erano tornati in mente tutti i cambiamenti subiti in quella giornata.

«Verosimile come storiella, non c’è che dire!» replicò il Piccione col più profondo disprezzo. «E sì che ne ho viste tante, ma proprio tante di bambine in vita mia, ma non mi è mai capitato di vederne una con un collo come quello! No, no! Tu sei un Serpente; è inutile che ti ostini a negarlo. Immagino che adesso vorrai farmi credere di non aver mai assaggiato un uovo!»

«Ho assaggiato delle uova, certamente» rispose Alice, che era una bambina molto sincera, «ma anche le bambine mangiano le uova, tanto quanto i serpenti, non lo sapevi?»

«Non ci credo» replicò il Piccione; «ma se fosse vero, be’, allora sono una specie di Serpenti anche loro: ecco cosa ti dico».

Questa era una tale novità per Alice, che se ne stette in silenzio per un paio di minuti, dando così l’occasione al Piccione di soggiungere: «Tu sei in cerca di uova, su questo non ho alcun dubbio; e allora, cosa vuoi che me ne importi se sei una bambina o un Serpente?»

«Importa bene a me» ribatté Alice prontamente: «ma il caso vuole che io non sia in cerca di uova; e se anche fosse, delle tue uova non saprei che farmene, perché a me non piacciono le uova crude.»

«E allora, vattene via!» concluse il Piccione cupamente, e andò a rimettersi accovacciato nel suo nido. Alice cercò di calare giù tra gli alberi alla meglio, perché il collo continuava a impigliarsi tra i rami e di tanto in tanto doveva fermarsi per districarlo. Poco dopo si ricordò dei pezzettini di fungo che teneva in mano, e si mise al lavoro con grande attenzione, smozzicando prima un pezzetto dell’uno e poi un pezzetto dell’altro, e diventando di volta in volta un poco più alta o un poco più bassa, fino a che non le riuscì di recuperare la sua altezza normale.

Era ormai passato molto tempo dall’ultima volta che era stata più o meno alta come al solito, e sulle prime si sentì alquanto stranita; ma ci si abituò in pochi minuti, e riprese a parlare fra sé e sé, come di consueto. «Ecco che metà del mio progetto è stato realizzato! Come sono sconcertanti tutti questi cambiamenti! Non sono mai sicura di cosa sto per diventare di minuto in minuto! Comunque, adesso sono tornata alla mia statura normale: mi rimane soltanto una cosa da fare, entrare in quel bel giardino – ma come, mi domando?» Nel mentre che diceva queste cose, scorse davanti a sé una radura spaziosa nel mezzo della quale c’era una casetta alta circa un metro. «Chiunque ci abiti» rifletté Alice, «non mi conviene farmi vedere in queste dimensioni: si prenderebbero una strizza da morirci!» E prese a sbocconcellare il pezzetto di fungo della mano destra, ma non si avventurò nei pressi della casetta, finché non si fu ridotta a un’altezza di venti centimetri.

CAPITOLO VI • PEPE E PORCELLO

Da un paio di minuti stava contemplando la casa, chiedendosi cosa fosse meglio fare, quando all’improvviso sbucò fuori dal bosco, di corsa, un valletto in livrea – (giudicò che fosse un valletto perché aveva la livrea: altrimenti, dalla faccia si sarebbe detto che fosse un pesce) – il quale andò a bussare con forza alla porta. La porta fu aperta da un altro valletto in livrea con la facciona tonda e gli occhi grandi come una rana; tutti e due i valletti, osservò Alice, avevano i capelli incipriati e arricciolati tutt’intorno al capo. Spinta dalla curiosità di sapere cosa stava succedendo, Alice mosse cautamente qualche passo fuori dal bosco, per ascoltare.

Il Valletto-Pesce cominciò con l’estrarre di sotto il braccio una lettera molto grande, grande quasi come lui, che poi consegnò all’altro, dicendo con un tono solenne: «Per la Duchessa. Un invito alla partita di croquet da parte della Regina». Il Valletto-Rana ripeté con lo stesso tono solenne, solo modificando leggermente l’ordine delle parole. «Da parte della Regina. Un invito per la Duchessa alla partita di croquet.»

Poi tutti e due fecero un profondo inchino, e i riccioli dell’uno rimasero impigliati in quelli dell’altro.

Al che, Alice scoppiò a ridere così forte che dovette tornare di corsa nel bosco per paura che la sentissero; e quando si riaffacciò il Valletto-Pesce se ne era andato e l’altro, seduto per terra accanto alla porta, guardava imbambolato il cielo.

Alice si accostò timorosa alla porta, e bussò.

«Bussare non serve a niente» disse il Valletto, «e per due buone ragioni. La prima è che io sono dalla stessa parte della porta dove sei tu. La seconda è che stanno facendo un tale chiasso là dentro, che non ti può sentire nessuno.» E in effetti si sentiva un baccano infernale che proveniva dall’interno della casa – ululati e starnuti a non finire, rotti di tanto in tanto da un gran fragore come se una pentola di coccio o un piatto fossero andati in frantumi. «Allora, di grazia» disse Alice, «come faccio a entrare?»

«Potrebbe avere un senso bussare» soggiunse il Valletto, senza farle caso, «se ci fosse la porta tra di noi. Per esempio, se tu fossi dentro, potresti bussare, e io ti farei uscire.» Mentre parlava, non smise un attimo di tenere lo sguardo fisso al cielo, e per Alice questo era un segno di grande maleducazione. «Forse, non può farne a meno» disse fra sé e sé, «ha gli occhi ficcati quasi sulla sommità del capo. Ma potrebbe almeno rispondere alle domande – come faccio a entrare?» ripeté a voce alta.

«Me ne starò qui seduto» osservò il Valletto, «fino a domani -».

In quell’istante la porta della casa si aprì e un enorme piatto volò fuori puntando dritto alla testa del Valletto: gli sfiorò il naso e andò a rompersi in mille pezzi contro uno degli alberi dietro di lui.

«- o dopodomani, magari» concluse il Valletto con il medesimo tono, come se niente fosse.

«Come faccio a entrare?» domandò Alice ancora una volta, con voce ancora più alta.

«Ma ti è permesso entrare?» disse il Valletto. «Perché sarebbe questa la prima domanda da fare, no?»

Lo era senza alcun dubbio: ma Alice non amava sentirselo dire. «È davvero spaventoso» borbottò fra sé, «come tutte queste creature vogliono sempre discutere. Ti fanno impazzire!»

Il Valletto colse l’occasione per ripetere il suo pensiero, apportando qualche variante. «Me ne starò qui seduto» disse, «a intervalli, per giorni e giorni».

«Ma io cosa devo fare?» chiese Alice.

«Quello che ti pare» rispose il Valletto e si mise a fischiare.

«Ah! Non serve a niente parlare con lui» esclamò Alice, esasperata: «È del tutto rincitrullito!» E, aperta la porta, entrò.

La porta dava direttamente su un’ampia cucina che era completamente invasa dal fumo: la Duchessa se ne stava seduta al centro su uno sgabello a tre gambe con un bambino in braccio; la cuoca era china sui fornelli e rimestava un gran calderone che doveva essere pieno di minestra.

«C’è sicuramente troppo pepe in quella minestra!» mormorò fra sé Alice, a fatica per via degli starnuti.

Ce n’era sicuramente troppo nell’aria. Perfino la Duchessa starnutiva di tanto in tanto; quanto al bambino, o starnutiva o urlava, alternativamente, senza un attimo di sosta. Le uniche due creature in quella cucina che non starnutissero, erano la cuoca e un gattone che se ne stava accovacciato accanto al fuoco con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.

«La prego, mi dica» disse Alice piuttosto timidamente, perché non era del tutto sicura che fosse educato da parte sua parlare per prima, «perché il suo gatto sorride a quel modo?»

«È un gatto del Cheshire» rispose la Duchessa, «ecco perché! Porcello!»

Gridò l’ultima parola con un tale scoppio di improvvisa violenza che Alice sobbalzò; ma si rese subito conto che era rivolta al bambino, e non a lei, e, fattasi coraggio, soggiunse:

«Non sapevo che i gatti del Cheshire sorridessero sempre; anzi, io non sapevo neanche che i gatti sapessero sorridere».

«Tutti i gatti sanno sorridere» rispose la Duchessa, «e quasi tutti lo fanno».

«Non so di nessun gatto che sorrida» disse Alice molto educatamente, ben contenta di aver avviato una conversazione.

«Tu non sai un granché» replicò la Duchessa, «e questo è un fatto».

Ad Alice non piacque per niente il tono di questa osservazione, e decise che era meglio introdurre un altro argomento. Mentre ne stava cercando uno, la cuoca tolse il calderone della minestra dal fuoco, e si diede subito un gran daffare a lanciare alla Duchessa e al bambino tutto quello che le capitava tra le mani – gli attrezzi del fuoco come prima cosa, e poi un diluvio di pentole, piatti e tegami. La Duchessa non ci faceva caso, nemmeno quando veniva colpita; quanto al bambino stava già urlando con tanta forza che non si sarebbe potuto dire se i colpi gli facessero male oppure no.

«Oh, la prego, stia attenta!» si mise a gridare Alice, mentre saltava qua e là sconvolta dal terrore. «Oh, gli staccherà quel prezioso nasino!» mentre un tegame di insolita grandezza volava radente al naso del bimbo e quasi glielo portava via.

«Se ognuno pensasse agli affari suoi» brontolò la Duchessa con voce roca, «il mondo girerebbe molto più in fretta».

«Il che non ci porterebbe alcun vantaggio» disse Alice, profondamente soddisfatta di avere l’occasione per esibire un po’ del suo sapere. «Pensi soltanto al disastro che avremmo col giorno e la notte! Lei sa che la terra impiega ventiquattro ore per girare attorno al proprio asse -».

«A proposito di asce» la interruppe la Duchessa, «mozzatele la testa!»

Alice lanciò un’occhiata ansiosa alla cuoca, per vedere se avesse intenzione di procedere in tal senso; ma la cuoca era tutta intenta a rimestare la minestra e pareva che non avesse sentito; allora Alice ricominciò: «Ventiquattro ore, mi pare, o sono dodici? Io -»

«Ah, non chiederlo a me!» replicò la Duchessa. «Non ho mai potuto soffrire i numeri!» E detto questo, cominciò a cullare il bimbo, facendo del suo meglio per cantargli una specie di ninna nanna, e quando arrivava alla fine di ogni verso gli dava un violento scrollone:

«Dure parole al fantolino,

E botte tante se starnuta:

Lo fa solo per far dannare,

Dunque gli spetta una battuta».

CORO

(composto dalle voci unite della cuoca e del bambino):

«Uè! Uè! Uè!»

Mentre cantava la seconda strofa della canzone, la Duchessa lanciò con forza il bimbo per aria e poi lo riprese, lo lanciò e lo riprese, e il povero esserino strillava tanto forte che Alice faticava a distinguere le parole:

«Duro gli parlo al mio bambino,

E botte tante se starnuta:

Quando gli aggrada al malandrino,

Gode il suo pepe, e non starnuta».

CORO

«Uè! Uè! Uè!»

«Ecco fatto! Cullalo un po’ tu, se ti va!» disse la Duchessa ad Alice, e mentre parlava le lanciò il bambino. «Devo prepararmi per andare a giocare a croquet con la Regina» e uscì dalla stanza. La cuoca le lanciò dietro una padella per friggere, ma la mancò.

Alice fece una certa fatica a prendere in braccio il bambino, perché la creaturina aveva una forma piuttosto stramba e cacciava fuori gambe e braccia da tutte le parti, «proprio come una stella marina», pensò Alice. Il povero esserino sbuffava come una locomotiva quando lei lo prese in braccio, e non faceva altro che piegarsi in due e poi raddrizzarsi di colpo, in modo tale che sulle prime Alice dovette limitarsi a reggerlo. Appena ebbe capito qual era il modo corretto per tenerlo in braccio (che era quello di strizzarlo in una specie di nodo, e poi di tenerlo ben saldo per l’orecchio destro e il piede sinistro, per impedirgli di srotolarsi), lo portò fuori all’aria aperta. «Se non prendo questo bambino e me lo porto via con me» pensava Alice, «tempo un paio di giorni, me lo ammazzano. Non sarebbe un delitto lasciarlo qui?» Queste ultime parole le disse a voce alta, e l’esserino fece un grugnito in risposta (aveva ormai smesso di starnutire). «Non grugnire» gli disse Alice, «non è un modo corretto per esprimersi».

Il piccolo grugnì di nuovo, e Alice, preoccupatissima, lo guardò bene in faccia per vedere cosa avesse. Decisamente, il naso era molto all’insù, più che un naso vero sembrava un grugno: anche gli occhi si stavano rimpicciolendo troppo per un neonato; c’era qualcosa nell’insieme che non andava bene in quell’esserino. «Ma forse è tutta colpa dei singhiozzi» pensò Alice, e tornò a guardargli bene gli occhi per vedere se c’erano lacrime.

Niente, neanche una lacrima. «Se ti stai trasformando in un porcello, caro mio» gli disse Alice in tutta serietà, «non voglio avere più niente a che vedere con te. Stai attento!» Il povero esserino singhiozzò di nuovo (o grugnì, era difficile stabilire quale delle due cose), e poi rimasero tutti e due per qualche tempo in silenzio.

Alice aveva appena cominciato a ragionare fra sé e sé «E adesso, che ne farò di questa creatura, quando l’avrò portata a casa?» che quello lanciò un altro grugnito con tanta forza da costringerla a guardarlo in faccia, allarmatissima. Non c’era da sbagliarsi questa volta: non era niente di più e niente di meno di un porcello, e sarebbe stato del tutto assurdo continuare a tenerlo in braccio.

Allora depose la creaturina a terra, e provò un notevole sollievo nel vederlo trottare tranquillo verso il bosco. «Se fosse cresciuto» disse fra sé e sé, «sarebbe diventato un bambino spaventosamente brutto; invece ne verrà fuori un bellissimo maiale.» E cominciò a passare in rassegna tutti gli altri bambini che conosceva e che sarebbero stati altrettanto adatti a diventare dei maiali, «se soltanto avesse saputo il modo giusto per trasformarli -» quando si prese un mezzo spavento nel vedere il Gatto del Cheshire sdraiato sul ramo di un albero poco lontano.

Il Gatto si limitò a sorridere quando la vide. Sembrava ben disposto, ella pensò: tuttavia aveva delle unghie molto lunghe e tanti, tantissimi denti; capì che andava trattato con rispetto.

«Micio bello del Cheshire» cominciò con un certo timore, siccome non sapeva se gli fosse gradito essere chiamato così: comunque, quello allungò un poco il sorriso. «Bene, fin qui è contento» pensò Alice, e soggiunse, «Mi vuoi dire, per favore, quale strada devo prendere per uscire di qui?»

«Dipende in gran parte da dove vuoi andare» rispose il Gatto.

«Non mi importa dove -» disse Alice.

«Allora non importa nemmeno quale strada prendi» replicò il Gatto.

«- purché io arrivi da qualche parte» aggiunse Alice come spiegazione.

«Ma da qualche parte ci arrivi di sicuro» disse il Gatto, «se vai sempre avanti senza fermarti.»

Alice capì che era una risposta inattaccabile e provò a fare un’altra domanda. «Che gente vive da queste parti?»

«In quella direzione» rispose il Gatto, facendo cenno con la sua rotonda zampa destra, «ci abita un Cappellaio: e in quell’altra direzione» accennando con l’altra zampa, «ci abita il Leprotto Marzolino. Vai da chi ti pare: sono matti tutti e due.»

«Ma io non voglio andare in mezzo ai matti» obiettò Alice.

«Be’, è inevitabile» le rispose il Gatto. «Siamo tutti matti qui. Io sono matto. Tu sei matta».

«Come fai a sapere che sono matta?» chiese Alice.

«Devi esserlo» fece il Gatto, «altrimenti non saresti venuta qui».

Alice non riteneva che fosse una prova sufficiente; comunque soggiunse: «E come fai a sapere che tu sei matto?»

«Per cominciare» disse il Gatto, «un cane non è matto. Sei d’accordo su questo?»

«Penso di sì» rispose Alice.

«Bene» proseguì il Gatto, «allora tu sai che un cane ringhia quando è arrabbiato, e che dimena la coda quando è contento. Io, invece, ringhio quando sono contento e dimeno la coda quando sono arrabbiato. Perciò sono matto.»

«Io lo chiamo fare le fusa, non ringhiare» osservò Alice.

«Chiamalo come ti pare» disse il Gatto. «Vieni a giocare a croquet con la Regina,

oggi?»

«Mi piacerebbe moltissimo» rispose Alice, «ma finora non sono stata invitata.»

«Mi troverai là» disse il Gatto, e svanì.

Alice non ne fu troppo sorpresa: si stava abituando molto bene a veder succedere delle stranezze. Stava ancora guardando il punto dove era sdraiato, quando il Gatto ricomparve all’improvviso.

«A proposito, che ne è stato del bambino?» domandò il Gatto. «Quasi mi scordavo di chiedertelo».

«Si è trasformato in porcello» rispose Alice tranquilla tranquilla, come se il Gatto fosse ricomparso in modo naturale.

«Me l’aspettavo» disse il Gatto, e svanì di nuovo.

Alice attese per un po’, quasi aspettandosi di rivederlo, ma poiché non ricompariva, dopo un paio di minuti si incamminò nella direzione dove le era stato detto che viveva il Leprotto Marzolino. «I cappellai, li conosco già» diceva fra sé, «il Leprotto Marzolino dovrebbe essere molto più interessante, e magari, siccome siamo di maggio, non farà il matto – perlomeno non come lo fa di marzo». Mentre diceva queste cose, alzò gli occhi, ed ecco di nuovo il Gatto, sdraiato sul ramo di un albero.

«Hai detto “porcello” o “forcella”?» chiese il Gatto.

«Ho detto “porcello”» rispose Alice; «e ti sarei grata se smettessi di apparire e scomparire così all’improvviso: mi fai venire il capogiro!»

«D’accordo» disse il Gatto; e questa volta svanì con estrema lentezza, cominciando dalla punta della coda, e finendo con il sorriso, che rimase sospeso nell’aria per qualche tempo dopo che tutto il resto era scomparso.

«Guarda, guarda! Quante volte ho visto un gatto senza sorriso» pensava Alice, «ma mai un sorriso senza gatto! È la cosa più curiosa che mi sia mai capitata in vita mia!»

Non aveva fatto molta strada quando giunse in vista della casa del Leprotto Marzolino: la casa doveva proprio essere quella, perché aveva i comignoli a forma di orecchie e il tetto era coperto di pelo. Era una casa così grande che Alice preferì non avvicinarsi finché non ebbe smozzicato un po’ del pezzetto di fungo che teneva nella mano sinistra e non si fu alzata di un mezzo metro: anche così, si avvicinò alla casa con gran timore dicendo fra sé e sé: «E se poi stesse ancora facendo il matto? Forse avrei fatto meglio ad andare dal Cappellaio!»

CAPITOLO VII • IL TÈ DEI MATTI

Apparecchiato sotto un albero davanti alla casa, c’era un tavolo dove il Leprotto Marzolino e il Cappellaio prendevano il tè; seduto in mezzo a loro, c’era un Ghiro che dormiva della grossa, mentre quei due lo usavano come cuscino per appoggiarci sopra i gomiti e conversavano al di sopra della sua testa. «Il Ghiro non sta certo comodo» pensò Alice, «ma dal momento che dorme, forse non gliene importa niente».

Il tavolo era piuttosto grande, ma i tre se ne stavano tutti addossati in un angolo. «Non c’è posto! Non c’è posto!» gridarono appena videro Alice farsi avanti. «Ci sono un sacco di posti!» replicò Alice indignata, e si accomodò su un’ampia poltrona a capotavola.

«Vuoi un po’ di vino?» le disse il Leprotto Marzolino con tono suasivo.

Alice diede uno sguardo al tavolo, ma c’era solo tè. «Non vedo il vino» disse.

«Non ce n’è» rispose il Leprotto Marzolino.

«E allora non mi sembra tanto educato offrirlo» replicò Alice con stizza.

«Non mi sembra tanto educato sedersi senza essere invitati» ribatté il Leprotto Marzolino.

«Non sapevo che fosse il vostro tavolo» spiegò Alice. «È apparecchiato per molto più di tre persone.»

«Dovresti farti tagliare i capelli» disse il Cappellaio. Era da un po’ che stava osservando Alice con grande curiosità, e quelle furono le prime parole che pronunciò.

«E tu dovresti imparare che non si fanno osservazioni sulle questioni personali» replicò Alice piuttosto severamente. «È molto sgarbato».

A queste parole il Cappellaio sgranò tanto d’occhi; ma non disse altro che «Sai dirmi perché un corvo assomiglia a una scrivania?»

«Ah, ora sì che ci divertiamo!» pensò Alice. «Sono contenta che si siano messi a giocare agli indovinelli – Lo so, credo», aggiunse a voce alta.

«Intendi dire che credi di aver trovato la soluzione?» le domandò il Leprotto Marzolino.

«Precisamente» disse Alice.

«Allora, quando parli, dovresti dire ciò che intendi dire», soggiunse il Leprotto Marzolino.

«Certo» replicò prontamente Alice; «perlomeno – perlomeno io intendo dire proprio ciò che dico – che è poi la stessa cosa, no?»

«No che non è la stessa cosa!» esclamò il Cappellaio. «A questa stregua, potresti sostenere che “Vedo ciò che mangio” sia la stessa cosa di “Mangio ciò che vedo”!»

«A questa stregua» aggiunse il Leprotto Marzolino, «potresti sostenere che “Mi piace quello che prendo” sia la stessa cosa di “Prendo quello che mi piace!”»

«A questa stregua, potresti sostenere» aggiunse il Ghiro, il quale sembrava parlasse nel sonno, «che «quando dormo, respiro» sia la stessa cosa di “quando respiro, dormo”!»

«Che per te è proprio quello che vale» concluse il Cappellaio, e qui cadde la conversazione e il gruppetto restò in silenzio per un minuto, mentre Alice cercava di ricordarsi tutto quello che sapeva sui corvi e sulle scrivanie, non molto per la verità.

Il Cappellaio fu il primo a rompere il silenzio. «Che giorno è oggi, del mese?» chiese, rivolto ad Alice; si era tolto l’orologio di tasca e lo contemplava perplesso, dandogli una scrollatina di tanto in tanto per poi portarselo all’orecchio.

Alice ci pensò un attimo, e poi rispose: «Il quattro».

«È indietro di due giorni!» sospirò il Cappellaio. «Te l’avevo detto che il burro non fa bene agli ingranaggi!» aggiunse, guardando in malo modo il Leprotto Marzolino.

«Era un burro eccellente!» rispose mite il Leprotto Marzolino.

«Sì, ma ci sono entrate anche delle briciole» brontolò il Cappellaio; «non avresti dovuto usare il coltello del pane per spalmare il burro sull’orologio».

Il Leprotto Marzolino prese in mano l’orologio e lo guardò mogio: poi lo tuffò nella tazza del tè e tornò a guardarlo; ma non poté che confermare quanto aveva detto prima: «Era un burro eccellente».

Alice aveva sbirciato da sopra la spalla del Leprotto Marzolino con una certa curiosità. «Che buffo orologio!» osservò. «Dice qual è il giorno del mese, ma non dice l’ora!»

«Perché dovrebbe?» brontolò il Cappellaio. «Forse che il tuo orologio ti dice in che anno siamo?»

«No, naturalmente» rispose Alice con prontezza; «ma è perché ci sta tanto a lungo dentro lo stesso anno».

«E questo è esattamente il caso del mio orologio» disse il Cappellaio.

Alice era terribilmente perplessa. Non c’era alcun dubbio che il Cappellaio parlasse la sua stessa lingua, eppure quel discorso non aveva per lei alcun senso. «Non ti capisco proprio» disse con tutta la gentilezza possibile.

«Il Ghiro si è riaddormentato» annunciò il Cappellaio, e gli versò sul naso un po’ di tè bollente.

Il Ghiro scosse il capo seccato, e disse, senza aprire gli occhi: «Naturalmente, naturalmente: stavo per dirlo anch’io».

«Hai trovato la soluzione dell’indovinello, allora?» chiese il Cappellaio, rivolgendosi di nuovo ad Alice.

«No, ci rinuncio» rispose Alice. «Qual è?»

«Non ne ho la più pallida idea» disse il Cappellaio.

«E nemmeno io» disse il Leprotto Marzolino.

Alice ebbe un sospiro di sconforto. «Dovreste imparare a usare un po’ meglio il vostro tempo» disse, «invece di sprecarlo con degli indovinelli senza soluzione».

«Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io» replicò il Cappellaio, «non oseresti parlarne con tanta disinvoltura; lui è un Signor Tempo».

«Non capisco cosa intendi dire» disse Alice.

«Certo che non capisci!» esclamò il Cappellaio, con un cenno sprezzante del capo. «Ci scommetto che non hai mai provato a parlarci assieme, col Tempo!»

«Forse no» rispose Alice cautamente, «ma so che quando facciamo musica, dobbiamo battere il tempo.»

«Ah, ecco! Ora tutto si spiega!» esclamò il Cappellaio. «Lui non tollera di essere battuto. Vedi, se te lo tieni amico, lui fa quasi tutto quello che vuoi con l’orologio. Per esempio, mettiamo che siano le nove del mattino, stanno per cominciare le lezioni: tu prendi il Tempo e gli sussurri una parolina, e via che le lancette girano in un baleno! L’una e mezza, è l’ora del pranzo!»

(«Magari fosse l’ora del pranzo!» sussurrò fra sé e sé il Leprotto Marzolino).

«Sarebbe magnifico, non c’è dubbio» rispose Alice con aria pensosa; «però – forse non avrei ancora fame, non ti pare?»

«Non subito, forse» replicò il Cappellaio, «ma potresti tenerlo fermo all’una e mezza finché non ti viene fame».

«E tu fai così?» domandò Alice.

Il Cappellaio scosse il capo tristemente. «No, io no!» rispose. «Ci siamo litigati il marzo scorso – poco prima che lui facesse il matto -» (col cucchiaino indicò il Leprotto Marzolino) «- Fu al gran concerto dato dalla Regina di Cuori, e io dovevo cantare

O pipistrello baluginante

Cosa pensi in questo istante?

Forse la conosci questa canzone?»

«Ho sentito qualcosa del genere» rispose Alice.

«Poi va avanti» proseguì il Cappellaio, «e dice:

Voli sul mondo, voli nel vento

Come un vassoio nel firmamento.

O pipistrello baluginante -»

A questo punto il Ghiro sussultò e si mise a cantare nel sonno «O pipistrello baluginante, o pipistrello baluginante -» e siccome non la finiva più, dovettero dargli dei pizzicotti per farlo smettere.

«Ebbene, avevo quasi finito la prima strofa» disse il Cappellaio, «quando la Regina si mise a urlare “È fuori Tempo! Tagliategli la testa!”»

«Che razza di crudele e sanguinaria!» esclamò Alice.

«Da quel momento» soggiunse il Cappellaio con tristezza, «non vuol far più niente di quanto gli domando. Sono sempre le sei, da allora!»

Alice ebbe una felice intuizione. «È per questo che ci sono tutte queste tazze, qua fuori?» chiese.

«Infatti» rispose il Cappellaio con un sospiro: «È sempre l’ora del tè, e non abbiamo neppure il tempo di lavare le tazze negli intervalli».

«E allora continuate a cambiare di posto attorno al tavolo, è così?» disse Alice.

«Esattamente» confermò il Cappellaio, «via via che le tazze si sporcano».

«Ma cosa succede quando arrivate alla fine del giro?» si azzardò a chiedere Alice.

«Perché non cambiamo argomento» interloquì il Leprotto Marzolino, sbadigliando. «Questo mi è venuto a noia. Do il mio voto a favore della giovane fanciulla perché ci racconti una storia».

«Ma io non ne so nessuna» replicò Alice, allarmatissima per la proposta.

«Allora tocca al Ghiro!» gridarono gli altri due. «Sveglia, Ghiro!» E presero a dargli pizzicotti l’uno da una parte e l’altro dall’altra, contemporaneamente.

Il Ghiro aprì lentamente gli occhi. «Non stavo dormendo» disse con una vocina impastata. «Ho sentito tutto quello che stavate dicendo, parola per parola».

«Raccontaci una storia!» gli ordinò il Leprotto Marzolino.

«Sì, per favore, raccontaci una storia!» lo pregò Alice.

«E cerca di far presto» aggiunse il Cappellaio, «o caschi addormentato prima di averla finita».

«C’erano una volta tre sorelline» cominciò il Ghiro in gran fretta, «e si chiamavano Elsie, Lacie e Tillie, e vivevano in fondo a un pozzo -».

«Di cosa si nutrivano?» chiese Alice, che era sempre interessatissima ai problemi del mangiare e del bere.

«Si nutrivano di melassa» rispose il Ghiro, dopo averci riflettuto per un paio di minuti.

«È impossibile» osservò Alice molto educatamente. «Si sarebbero ammalate».

«E infatti erano malate» rispose il Ghiro; «molto malate».

Alice cercò per un attimo di immaginarsi quello stravagante modo di vivere, ma la sconcertava troppo, e passò a un’altra domanda: «Ma perché vivevano in fondo a un pozzo?»

«Prendine un po’ di più» disse premuroso il Leprotto Marzolino rivolgendosi ad Alice, «di tè».

«Veramente non l’ho ancora preso per niente» rispose Alice con il tono di chi è offeso; «ragion per cui non posso prenderne di più».

«Vorrai dire che non puoi prenderne di meno» obiettò il Cappellaio, «prendere qualcosa di più che niente è facilissimo».

«Nessuno ha chiesto la tua opinione» replicò Alice.

«E adesso, chi mi sta facendo osservazione?» chiese il Cappellaio trionfante.

Poiché Alice non sapeva cosa ribattere, si versò una tazza di tè e imburrò una fetta di pane, poi si rivolse al Ghiro e ripeté la sua domanda. «Ma perché vivevano in fondo a un pozzo?»

Ancora una volta il Ghiro ci impiegò un paio di minuti per rispondere, e infine disse: «Era un pozzo di melassa».

«Non esiste una cosa simile!» sbottò Alice irritatissima, ma fu subito bloccata dallo «Ssst! Ssst!» del Cappellaio e del Leprotto Marzolino, mentre il Ghiro immusonito dichiarava: «Se continui a far la maleducata, la storia te la finisci da te».

«Oh, no, per favore, vai avanti» disse Alice umile umile. «Non ti interrompo più. Un pozzo così ci dovrà pur essere!»

«Uno solo, eh!» replicò il Ghiro con indignazione. Tuttavia acconsentì a proseguire. «E allora quelle tre sorelline – imparavano a disegnare -».

«Che cosa disegnavano?» domandò Alice, del tutto dimentica della sua promessa.

«Melassa» rispose il Ghiro, senza starci a pensare neanche un attimo, questa volta.

«Voglio una tazza pulita» interruppe il Cappellaio, «passiamo tutti avanti di un posto».

Mentre parlava, si spostò di un posto, e il Ghiro fece la stessa cosa dietro di lui: il Leprotto Marzolino si mise al posto del Ghiro, e Alice prese assai a malincuore il posto del Leprotto Marzolino. Il Cappellaio fu l’unico a trarre vantaggio dal cambiamento, mentre Alice stava assai peggio di prima, perché il Leprotto Marzolino si era appena rovesciato nel piattino tutto il bricco del latte.

Alice non voleva offendere un’altra volta il Ghiro e fu solo con grande cautela che si azzardò a chiedere: «Non capisco. Da dove prendevano la melassa per disegnarla?»

«Sai come si prende l’acqua da un pozzo d’acqua?» le rispose il Cappellaio. «Allo stesso modo prendi la melassa da un pozzo di melassa, no, stupidina!»

«Ma loro erano in fondo al pozzo» aggiunse Alice, rivolta al Ghiro, preferendo ignorare quest’ultima osservazione.

«Certo» rispose il Ghiro, «nel fondo profondo del pozzo».

Questa risposta mandò talmente in confusione la povera Alice che il Ghiro poté continuare la sua storia per qualche minuto senza essere interrotto.

«Imparavano a disegnare» diceva il Ghiro, sbadigliando e strofinandosi gli occhi, poiché gli era tornato un gran sonno, «e disegnavano ogni genere di cose – tutte le cose che cominciano con una M -».

«Perché con una M?» domandò Alice.

«E perché no?» rispose il Leprotto Marzolino.

Alice tacque.

A questo punto il Ghiro aveva già chiuso gli occhi e si stava appisolando; ma, sotto i pizzicotti del Cappellaio, si risvegliò di nuovo con un lieve strillo, e proseguì: «- tutto ciò che cominciava con una M, come mollica di pane, e montagna della luna, e memoria, e molteplicità – sai che parlando di tante cose si dice che sono una molteplicità – ti è mai capitato di vedere una cosa che fosse il disegno di una molteplicità?»

«A dire la verità, adesso che mi ci fai pensare» rispose Alice, estremamente confusa, «non mi sembra-».

«E allora cosa parli a fare?» obiettò il Cappellaio.

Quest’ultima sgarberia fu per Alice più di quanto potesse sopportare: si alzò in piedi indignatissima e se ne andò. Il Ghiro ripiombò a dormire subito, e gli altri due non parvero minimamente accorgersi della sua partenza, benché lei si fosse voltata indietro un paio di volte, con la mezza speranza di essere richiamata. L’ultima volta che li vide, stavano cercando di infilare il Ghiro dentro alla teiera.

«Non tornerò laggiù, in nessun caso!» diceva Alice, mentre riprendeva il cammino nel bosco. «È il più stupido tè a cui abbia mai partecipato in vita mia!»

Proprio mentre diceva queste cose, si accorse che uno degli alberi aveva una porta per entrarci dentro. «Molto buffo!» pensò. «Già, ma tutto è buffo, oggi. Tanto vale entrarci subito». E ci entrò.

Si ritrovò ancora una volta, nel grande salone proprio accanto al tavolino di vetro. «Stavolta, però voglio fare le cose con più giudizio» disse fra sé e sé, e per prima cosa prese la piccola chiave d’oro e aprì la porta che conduceva al giardino. Poi si mise a mangiucchiare il fungo (ne aveva tenuto un pezzetto in tasca) finché non fu alta una ventina di centimetri. Poi attraversò il piccolo cunicolo, e poi – si trovò finalmente nel bel giardino, fra le aiuole di fiori risplendenti e fra le fontane di acqua fresca.

CAPITOLO VIII • IL CAMPO DA CROQUET DELLA REGINA

Accanto all’ingresso del giardino, c’era un grande rosaio a alberello: le rose che vi fiorivano erano bianche, ma c’erano tre giardinieri tutt’attorno che le stavano alacremente dipingendo tutte di rosso. Alice la giudicò una cosa molto curiosa, e si avvicinò per vedere meglio; era giunta a pochi passi dai giardinieri, quando ne sentì uno dire: «Stai un po’ attento, Cinque! Non mi spruzzare addosso la vernice!»

«Non è stata colpa mia» rispose Cinque, con tono cupo. «Sette mi ha urtato il gomito».

Al che Sette sollevò la testa e obiettò: «E bravo Cinque! Dai sempre la colpa agli altri!»

«Faresti meglio a tacere!» disse Cinque. «Ho sentito la Regina dire appena ieri che meritavi di farti tagliare la testa».

«Che cosa ha combinato?» domandò quello che aveva parlato per primo.

«Non sono affari tuoi, Due!» replicò Sette.

«Sono anche affari suoi!» disse Cinque. «E glielo voglio dire cosa ha combinato – invece delle cipolle, ha portato alla cuoca dei bulbi di tulipano».

Sette scaraventò a terra il pennello e aveva appena cominciato a dire «Di tutte le cose ingiuste -» quando l’occhio gli cadde su Alice, che se ne stava lì a osservarli, e si arrestò di botto: gli altri si voltarono anche loro, e tutti fecero un profondo inchino.

«Vi dispiace dirmi, per favore» chiese Alice, con un fare timido, «perché state colorando di rosso quelle rose?»

Cinque e Sette non dissero una parola, ma guardarono Due. Due cominciò a voce bassa: «Be’, il fatto è che, vede, signorina, qui avrebbe dovuto esserci un rosaio ad alberello di rose rosse, e noi, per sbaglio, ne abbiamo messo uno a rose bianche: e se la Regina lo viene a sapere, ci farà tagliare la testa a tutti quanti, capisce. Perciò vede, signorina, ci stiamo dando da fare prima che arrivi lei, per -». In quel momento, Cinque, che aveva continuato a tener d’occhio il fondo del giardino, gridò: «La Regina! La Regina!» e i tre giardinieri immediatamente si buttarono a terra piatti con la faccia in giù. Ci fu un gran rumore di passi, e Alice si voltò ansiosa di vedere la Regina.

Venivano avanti per primi dieci soldati con i bastoni in mano: avevano tutti la stessa forma dei tre giardinieri, bislunga e piatta, con le mani e i piedi agli angoli; poi seguivano i dieci cortigiani: questi erano tutti decorati con danari, e camminavano a due a due, come i soldati del resto. E dietro c’erano i principini, dieci in tutto, che venivano avanti saltellando allegramente, mano nella mano, in coppia, ed erano tutti decorati con i cuori. Poi venivano gli ospiti, per lo più Re e Regine, in mezzo ai quali Alice riconobbe il Coniglio Bianco: parlava in modo concitato e nervoso, sorrideva di quanto si diceva e passò davanti ad Alice senza vederla. Seguiva poi il Fante di Cuori, che reggeva la corona del Re su di un cuscino di velluto scarlatto; e, ultimi di questo imponente corteo, venivano

IL RE E LA REGINA DI CUORI.

Alice si chiedeva perplessa se fosse il caso di buttarsi a terra a faccia in giù come i tre giardinieri, e poiché non ricordava di aver mai sentito parlare di una regola simile per i cortei, «tra l’altro, a cosa serve un corteo» pensava, «se la gente si butta a terra a faccia in giù e non lo può vedere?» decise di restarsene lì, in piedi, e di aspettare.

Quando il corteo passò davanti ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono, e la Regina disse, severamente: «Cos’è questa?» Lo disse al Fante di Cuori, che per tutta risposta fece un inchino e un sorriso.

«Idiota!» esclamò la Regina con un gesto stizzoso del capo; e rivolta ad Alice, soggiunse: «Come ti chiami, ragazzina?»

«Mi chiamo Alice, se così piace alla Maestà vostra» rispose Alice con molto garbo; ma dentro di sé aggiunse: «Dopo tutto, sono solo un mazzo di carte. Non devo aver paura».

«E questi chi sono?» domandò la Regina, indicando i tre giardinieri che giacevano accanto al rosaio ad alberello; poiché, vedete, sul rovescio dei tre giardinieri che giacevano con la faccia in giù c’era un disegno che era uguale a tutto il resto del mazzo e la Regina non poteva capire se erano giardinieri o soldati o cortigiani oppure tre dei suoi stessi figlioli.

«Cosa vuole che ne sappia?» replicò Alice, sorpresa lei stessa del suo coraggio. «Non è affar mio».

La Regina si fece paonazza per la rabbia, e la fissò per un momento con uno sguardo da bestia feroce; poi si mise a urlare «Tagliatele la testa! Tagliatele -».

«Non dica cretinate!» fece Alice, con voce forte e decisa, e la Regina si zittì.

Il Re le appoggiò una mano sul braccio e cautamente le disse: «Tieni in considerazione, mia cara, che è soltanto una bambina!»

La Regina si scostò da lui furibonda e disse al Fante: «Voltali!»

Il Fante obbedì e li voltò molto delicatamente con un piede.

«Alzatevi!» ordinò la Regina con voce stridula e acuta, e i tre giardinieri balzarono immediatamente in piedi, e cominciarono a fare inchini davanti al Re, alla Regina, ai principini e a tutti gli altri.

«Finitela con questi inchini!» strillò la Regina. «Mi fate venire il capogiro.» E poi, indicando il rosaio ad alberello, soggiunse: «Che cosa stavate facendo qui?»

«Se così piace alla Maestà vostra» rispose Due umile umile, piegandosi su un ginocchio mentre parlava, «stavamo cercando -».

«Ho capito!» esclamò la Regina, che nel frattempo aveva esaminato le rose, «tagliate loro la testa!» e il corteo si rimise in movimento, mentre tre soldati restavano indietro per giustiziare gli sfortunati giardinieri, i quali si precipitarono da Alice in cerca di protezione.

«Nessuno vi taglierà niente!» dichiarò Alice, e li nascose dentro un enorme vaso di fiori che era lì vicino. I tre soldati li cercarono qua e là per un paio di minuti e poi se ne andarono via tranquillamente, marciando in coda agli altri.

«Avete tagliato loro la testa?» urlò la Regina.

«Delle loro teste non rimane traccia, se così piace alla Maestà vostra!» urlarono i soldati in risposta.

«Sta bene!» urlò la Regina. «Sai giocare a croquet?»

I soldati stettero zitti e guardarono Alice, poiché la domanda era evidentemente diretta a lei.

«Sì!» urlò Alice.

«E allora vieni!» tuonò la Regina, e Alice si aggregò al corteo, assai curiosa di vedere cosa sarebbe successo.

«È – è una bella giornata!» disse timidamente una voce al suo fianco. Era il Coniglio Bianco che camminava accanto a lei scrutandola ansiosamente in viso.

«Davvero bella» rispose Alice. «Dov’è la Duchessa?»

«Sssst! Sssst!» fece il Coniglio con voce bassa e concitata. Mentre parlava si guardò alle spalle, impaurito, e poi alzandosi in punta di piedi le bisbigliò in un orecchio: «È stata condannata a morte».

«Com’è stato?» domandò Alice.

«Hai detto “Peccato!”?» domandò il Coniglio.

«No» rispose Alice. «Non penso che sia un peccato. Ho detto “Com’è stato?”»

«Ha dato uno schiaffo alla Regina -» cominciò il Coniglio. Ad Alice scappò da ridere. «Oh, zitta! Zitta!» sussurrò il Coniglio, spaventato. «La Regina finirà per sentirti! Vedi, è arrivata in ritardo e la Regina ha detto -».

«Ai vostri posti!» urlò la Regina con voce tonante, e tutti si misero a correre, chi di qua, chi di là, cozzando gli uni contro gli altri; comunque, riuscirono a raggiungere i loro posti in un paio di minuti, e la partita ebbe inizio.

Mai in tutta la sua vita, pensava Alice, le era capitato di vedere un campo da croquet tanto curioso: era tutto buche e cunette; le palle da croquet erano porcospini, vivi, e le mazze erano fenicotteri, vivi anche loro, e i soldati dovevano stare piegati toccando terra con le mani, per formare gli archi.

All’inizio, la difficoltà maggiore per Alice fu quella di imparare a usare il fenicottero: non le riusciva troppo difficile prenderlo sotto il braccio, tenendolo ben stretto, con le gambe penzoloni; ma, in linea di massima, proprio quando gli aveva steso per bene il collo e si preparava a dare un colpo al porcospino, quello ritirava su la testa e si metteva a guardarla in faccia con una tale espressione interrogativa che Alice non poteva fare a meno di scoppiare a ridere; e quando gli aveva fatto riabbassare la testa, pronta a ricominciare tutto da capo, era molto irritante scoprire che il porcospino si era sgomitolato e stava per filarsela via; a parte tutto questo, c’era sempre una buca o una cunetta prima del punto dove avrebbe dovuto mandare il porcospino, e, siccome i soldati piegati in due si stavano sempre rialzando per trasferirsi altrove, Alice giunse ben presto alla conclusione che quella era una partita davvero dura da giocare. I giocatori giocavano tutti contemporaneamente senza rispettare i turni, litigando tutto il tempo e picchiandosi per avere i porcospini; e ben presto la Regina montò su tutte le furie e si mise a battere i piedi per terra e a urlare «Tagliategli la testa!» oppure «Tagliatele la testa!» pressappoco una volta ogni minuto.

Alice cominciava a sentirsi molto a disagio; certo, fino a quel momento non si era ancora scontrata con la Regina, ma sapeva che sarebbe potuto accadere in qualsiasi momento, «e allora» pensava, «che ne sarà di me? Qui hanno tutti la mania delle teste mozze: c’è da chiedersi come mai ne sia rimasto qualcuno vivo!»

Si stava guardando attorno per trovare il modo di svignarsela, magari senza farsi notare dagli altri, quando nell’aria apparve qualcosa di straordinario, che Alice dapprima guardò sbigottita, ma che dopo un paio di minuti di attenta osservazione, capì essere un sorriso e subito disse fra sé e sé: «È il Gatto del Cheshire: finalmente qualcuno con cui parlare».

«Come te la cavi?» le chiese il Gatto, appena ebbe abbastanza bocca per poter parlare.

Alice aspettò finché non gli vide apparire gli occhi, e poi fece un cenno di assenso. «È inutile che gli parli» pensava, «finché non compaiono perlomeno anche le orecchie». Ancora un minuto, e apparve la testa tutta intera, e allora Alice posò a terra il fenicottero, e cominciò a raccontare come stava andando la partita, assai contenta di avere qualcuno che la stesse a sentire. Evidentemente il Gatto riteneva che la parte di se stesso resa visibile fosse sufficiente, perché non apparve altro.

«Non giocano bene, per niente» cominciò Alice con tono risentito, «e non fanno altro che litigare tutti quanti furiosamente, tanto che non si può neanche sentire la propria voce quando si parla – e sembra che non abbiano nessuna regola: perlomeno, se ce ne sono, nessuno le segue – e non hai idea della confusione che si crea a giocare con delle cose che sono vive: per esempio, l’arco che avrei dovuto superare proprio adesso si è alzato in piedi e se ne sta andando dall’altra parte del campo – e un momento fa stavo per fare croquet al porcospino della Regina, ma quello è scappato via appena ha visto arrivare il mio!»

«Ti piace la Regina?» domandò il Gatto a bassa voce.

«Per niente» rispose Alice: «è talmente -». Fu in quel momento che si accorse di avere alle spalle proprio la Regina in persona, che la stava ascoltando, e concluse, «- chiaro che vincerà lei, che quasi non vale la pena di finire la partita».

La Regina fece un sorriso e passò oltre.

«Con chi stai parlando?» domandò il Re, che si era avvicinato ad Alice e guardava estremamente incuriosito la testa del Gatto.

«È un amico mio – un Gatto del Cheshire» rispose Alice: «Se permette, glielo presento».

«Ha qualcosa che non mi piace» disse il Re, «comunque, può baciarmi la mano, se ci tiene».

«Non ci tengo» obiettò il Gatto.

«Non fare l’impertinente» lo ammonì il Re, «e non guardarmi a quel modo!» Parlando si era andato a mettere alle spalle di Alice.

«Un gatto può guardare un re» disse Alice. «L’ho letto in qualche libro, ma non mi ricordo quale».

«Be’, bisogna allontanarlo» replicò il Re con un tono molto deciso, e gridò alla Regina che stava ripassando di lì in quel momento: «Mia cara! Vorrei che tu facessi allontanare questo gatto!»

La Regina aveva un modo solo per affrontare le difficoltà, piccole o grandi che fossero. «Via la testa!» disse, senza nemmeno voltarsi.

«Andrò io stesso a chiamare il boia» disse il Re con decisione, e se ne andò in gran fretta.

Alice pensò che poteva anche tornare indietro a vedere come andava la partita, poiché le giungeva da lontano la voce della Regina urlante di rabbia. L’aveva già sentita condannare a morte tre giocatori per aver perso il proprio turno, e non le piaceva affatto come si stavano mettendo le cose, perché la partita era in un tale stato di confusione che non sapeva mai se toccasse a lei giocare oppure no. Perciò si mise a cercare il proprio porcospino.

Il suo porcospino era impegnato in un duello con un altro porcospino, il che sembrò ad Alice un’ottima occasione per fare croquet dei due: l’unica difficoltà era costituita dal fatto che il suo fenicottero si era spostato sull’altra parte del giardino, e Alice lo vide che stava facendo degli inutili tentativi per volare su un albero.

Nel tempo che impiegò ad andare a riprendere il fenicottero e a riportarlo indietro, il duello era terminato e dei due porcospini non c’era più nemmeno l’ombra: «Tanto, che importanza ha?» pensava Alice, «anche gli archi si sono tutti spostati sull’altra parte del campo». Allora si sistemò il fenicottero sotto il braccio, perché non scappasse un’altra volta, e tornò a fare una chiacchierata con il suo amico.

Quando fu tornata dal Gatto del Cheshire, ebbe la sorpresa di trovare una gran folla che gli si era radunata tutt’attorno: c’era in corso una discussione tra il boia, il Re e la Regina, i quali parlavano tutti insieme contemporaneamente, mentre gli altri se ne stavano zitti, costernati.

Quando apparve Alice, tutti e tre i disputanti si rivolsero a lei perché definisse la questione, e ciascuno le ripeté le sue ragioni, ma poiché parlavano tutti insieme, Alice faticò non poco a capire cosa dicessero di preciso.

L’argomentazione del boia era che non si può tagliare una testa se non c’è il corpo attaccato, che non aveva mai fatto una cosa simile in vita sua e che non avrebbe cominciato ora che aveva una certa età.

L’argomentazione del Re era che qualunque cosa avesse una testa poteva essere decapitata, e che non dicesse cretinate.

L’argomentazione della Regina era che, se non si trovava una soluzione seduta stante, avrebbe fatto tagliare la testa a tutti quanti i presenti. (Era quest’ultimo argomento che rendeva la folla tanto seria e pensosa.)

Alice non seppe dire altro che: «È il Gatto della Duchessa: sarebbe meglio chiedere consiglio a lei».

«È in prigione» disse la Regina al boia: «portatela qui». E il boia partì come un fulmine.

La testa del Gatto cominciò a svanire lentamente appena il boia se ne fu andato, e nel tempo che quello impiegò per tornare con la Duchessa, era ormai scomparsa del tutto: allora il Re e il boia si misero a correre da tutte le parti per cercarla, mentre il resto della compagnia tornava alla partita.

CAPITOLO IX • STORIA DEL VITELLO-SIMILTARTARUGA

«Non ti puoi immaginare quanto sia contenta di rivederti, piccola cara!» esclamò la Duchessa, prendendo affettuosamente Alice sottobraccio e incamminandosi con lei.

Alice fu assai contenta di trovarla di così buon umore, e dentro di sé pensò che probabilmente era solo colpa del pepe se si era dimostrata tanto selvatica durante il loro primo incontro nella cucina.

«Quando io sarò Duchessa» disse fra sé e sé (con un tono non troppo speranzoso, a dire il vero), «non voglio avere nemmeno un granello di pepe nella mia cucina. La zuppa è buonissima anche senza – Magari è proprio il pepe che fa sempre venire il cattivo umore alla gente» continuò tutta compiaciuta per aver trovato un nuovo tipo di regola, «e l’aceto rende una persona acida – e la camomilla la rende amara – mentre le caramelle d’orzo e tutti gli altri pasticcini danno ai bambini un carattere dolce. La gente dovrebbe saperla quest’ultima cosa: non sarebbero più così avari coi dolci -».

A questo punto aveva del tutto dimenticato la Duchessa, ed ebbe un lieve trasalimento quando sentì che le sussurrava in un orecchio: «Ti sei messa a pensare, cara bambina, e non ti ricordi di parlare. Non so dirti, così sui due piedi, che morale ci sia in tutto ciò ma me lo ricorderò tra poco».

«Forse non c’è una morale» si arrischiò a dire Alice.

«Piano, piano, piccina!» replicò la Duchessa. «C’è sempre una morale, basta saperla trovare.» E mentre diceva queste cose, le si strinse ancora più dappresso. Ad Alice garbava poco di averla così a ridosso: innanzi tutto, perché la Duchessa era molto brutta, e in secondo luogo perché le arrivava col mento giusto giusto all’altezza della spalla e ce lo teneva appoggiato sopra: un mento terribilmente aguzzo. Comunque, non volendo sembrare scortese, Alice si sforzò di sopportarla: «La partita va un po’ meglio, ora» disse, tanto per sostenere la conversazione.

«Proprio così» confermò la Duchessa: «e la morale è – “L’amore, è l’amore che fa girare il mondo!”»

«Qualcuno ha detto» sussurrò Alice, «che il mondo gira se ognuno pensa agli affari suoi».

«Ah, sì! Ma il senso è lo stesso» obiettò la Duchessa, mentre conficcava ancora più a fondo il suo piccolo mento puntuto nella spalla di Alice, «e in questo caso la morale è: “Tu bada al senso, che i suoni sapranno badare a se stessi”».

«Che mania ha di trovare la morale in tutte le cose!» pensò Alice fra sé.

«Scommetto che vorresti sapere perché non ti cingo la vita col braccio» disse la Duchessa, dopo una pausa; «la ragione è che non mi fido dell’umore del tuo fenicottero. Che dici, la facciamo questa prova?»

«Le potrebbe dare una pizzicata col becco» rispose cautamente Alice, che non era affatto entusiasta di tentare quella prova.

«Verissimo» assentì la Duchessa: «i fenicotteri pizzicano, come la senape. E la morale è – “Chi si rassembra, s’assembra”».

«Solo che la senape non sembra un uccello» obiettò Alice.

«Giusto, come al solito» disse la Duchessa: «che modo chiaro hai di esporre le cose!»

«È un minerale, credo» aggiunse Alice.

«Certo che è un minerale» assentì la Duchessa, che sembrava pronta a dar ragione ad Alice in tutto: «abbiamo una grande miniera di senape, qua vicino. E la morale è – “La miniera è la maniera di gabbar la gente intiera”».

«Ah, lo so!» esclamò Alice, che non era stata a sentire quest’ultima frase, «è un vegetale. Non sembra, ma è un vegetale».

«Hai perfettamente ragione» convenne la Duchessa, «e la morale è – “Sii ciò che vorresti sembrare di essere” – ovvero, se vuoi che te lo dica più semplicemente – “Non immaginarti mai di non essere altro da quello che potrebbe sembrare agli altri che ciò che eri o potevi essere stata non fosse altro da ciò che eri stata e che avrebbe potuto loro sembrare essere altrimenti”».

«Credo che capirei meglio» disse Alice con molto garbo, «se lo vedessi scritto su un foglio: non riesco bene a tenerle dietro quando lei parla».

«Questo è niente! Non hai idea di quello che potrei fare, se volessi» rispose la Duchessa, molto compiaciuta.

«La prego, non si incomodi a inventare una frase ancora più lunga per me» disse Alice.

«Oh, ma non mi incomodo affatto!» esclamò la Duchessa. «Tutto quello che ho detto fino a qui, te lo regalo».

«Un regalo a buon mercato!» pensò Alice. «Per fortuna che non ci fanno mai regali di questo genere, per il compleanno!» Ma non si arrischiò a dirlo a voce alta.

«Sempre lì a pensare?» domandò la Duchessa, con un altro affondo del suo piccolo mento puntuto.

«Ho il diritto di pensare» replicò secca Alice, che cominciava a essere un po’ preoccupata.

«Lo stesso diritto» disse la Duchessa, «che hanno i maiali di volare: e la mo -».

Ma qui, con grande sorpresa di Alice, la voce della Duchessa venne meno, nel bel mezzo della sua parola preferita «morale», e Alice sentì che il braccio infilato sotto il suo aveva preso a tremare. Alzò gli occhi, e vide la Regina, piantata davanti a loro, a braccia conserte e aggrondata come un temporale.

«Bella giornata, vostra Maestà!» iniziò la Duchessa con una vocetta esile esile.

«Stai attenta, questo non è solo un avvertimento» urlò la Regina, e mentre parlava, batteva il piede per terra; «O sparisci tu o sparisce la tua testa, e tutto questo in metà del tempo che ci impieghi ad aprir bocca! Scegli tu!»

La Duchessa fece la sua scelta, e un attimo dopo era sparita.

«Noi riprendiamo la nostra partita» disse la Regina ad Alice, la quale era troppo spaventata per aprire bocca e la seguì lentamente verso il campo da croquet.

Gli altri ospiti si erano approfittati dell’assenza della Regina per sdraiarsi all’ombra a riposare, ma appena la videro tornare, si precipitarono ai loro posti, mentre la Regina si limitava a osservare che il ritardo di un solo attimo poteva costar loro la vita.

Per tutta la durata della partita, la Regina non fece che attaccar lite in continuazione con gli altri giocatori, gridando «Tagliategli la testa!» oppure «Tagliatele la testa!» I condannati venivano presi in custodia dai soldati, che naturalmente dovevano smettere di fare gli archi, e fu così che in capo a una mezz’ora circa, non rimasero più archi sul campo, e tutti i giocatori, tranne il Re, la Regina e Alice, erano agli arresti, sotto sentenza di morte.

Allora soltanto, la Regina, ormai completamente sfiatata, interruppe il gioco e chiese ad Alice «Hai già conosciuto il Vitello-Similtartaruga?»

«No» rispose Alice. «Non so nemmeno cosa sia un Vitello-Similtartaruga».

«È la cosa con la quale si fa la Zuppa di Tartarughe scappate» spiegò la Regina.

«Non l’ho mai visto, e non ne ho mai sentito parlare» rispose Alice.

«Allora seguimi» disse la Regina, «vedrai che ti racconterà la sua storia».

Mentre si allontanavano, Alice sentì il Re che, rivolgendosi alla folla, diceva a bassa voce: «Siete tutti graziati!» «Che buona azione!» osservò Alice fra sé e sé, perché si era assai dispiaciuta del numero di pene capitali che la Regina aveva inflitto.

Ben presto si imbatterono in un Grifone, che se ne stava sdraiato al sole, profondamente addormentato. (Se non sapete che cosa sia un Grifone, guardate la figura.) «Alzati, pigraccio!» gli gridò la Regina, «e porta questa giovane fanciulla dal Vitello-Similtartaruga, che le racconterà la sua storia. Io devo tornare indietro a controllare che siano eseguite certe condanne che ho pronunciato» e se ne andò via, lasciando Alice sola col Grifone. C’era qualcosa in quella creatura che non le piaceva per niente, ma decise che tutto sommato restare col Grifone non doveva essere più pericoloso che seguire quella selvatica Regina: e quindi rimase.

Il Grifone si sollevò e si strofinò gli occhi; seguì con lo sguardo la Regina finché non la vide scomparire, e poi sghignazzò. «Che spasso!» disse il Grifone, un po’ fra sé e sé e un po’ rivolto ad Alice.

«Che cosa è uno spasso?» domandò Alice.

«Be’, lei» rispose il Grifone. «È tutta una sua fantasia: non tagliano mai la testa a nessuno, naturalmente. Seguimi, dunque!»

«Sono tutti pronti a dire «Seguimi!» in questo posto» pensò Alice, mentre si apprestava lentamente a seguirlo: «Non ho mai ricevuto tanti ordini, in tutta la mia vita, mai e poi mai!»

Non avevano fatto molta strada, quando videro da lontano il Vitello-Similtartaruga, che se ne stava seduto tutto triste e solo su di un basso sperone roccioso, e mano a mano che si avvicinavano, Alice lo sentì che sospirava come se gli si spezzasse il cuore. Ne provò una grande pietà. «Che cosa lo affligge?» domandò al Grifone. E il Grifone rispose, quasi con le stesse parole che aveva usato poco prima: «È tutta una sua fantasia: non c’è niente che lo affligga. Seguimi!»

E si avvicinarono al Vitello-Similtartaruga, che li guardava con gli occhioni colmi di lacrime, senza dire una parola.

«La giovane fanciulla qui presente» disse il Grifone, «è venuta a sentire la tua storia».

«E io gliela racconterò» rispose il Vitello-Similtartaruga con una voce profonda e cavernosa. «Mettetevi a sedere, tutti e due, e non aprite bocca finché non avrò finito».

Allora si sedettero, e poi tacquero tutti per qualche minuto. Alice pensava fra sé e sé: «Non finirà mai, se non si decide a incominciare». Ma aspettò pazientemente.

«Una volta» cominciò finalmente il Vitello-Similtartaruga, tirando un profondo sospiro, «ero una Tartaruga vera».

A queste parole, seguì un silenzio assai lungo, interrotto soltanto da qualche occasionale «Ghiercrrr!» d’esclamazione da parte del Grifone, e dal continuo accorato singhiozzare del Vitello-Similtartaruga. Alice era lì lì per alzarsi e dire «Grazie tante, signore, la sua storia era molto interessante», ma siccome era chiaro che doveva esserci un seguito, se ne stette tranquilla e non disse niente.

«Quando eravamo piccoli» proseguì infine il Vitello-Similtartaruga, che si era un po’ calmato e che solo di tanto in tanto era squassato da un saltuario singhiozzo, «andavamo a scuola in fondo al mare. Il nostro maestro era un caro vecchio esemplare di Tartaruga – lo chiamavamo Testuggine -».

«Perché lo chiamavate Testuggine, se era una Tartaruga?» domandò Alice.

«Lo chiamavamo Testuggine, perché si intestardiva a farci leggere dei testi che erano una tetraggine» rispose seccato il Vitello-Similtartaruga. «È così difficile da capire?»

«Io mi vergognerei a fare delle domande così stupide» aggiunse il Grifone, e assieme al Vitello-Similtartaruga, se ne rimase a guardare la povera Alice che sarebbe volentieri sprofondata sotto terra. Infine il Grifone esortò il Vitello-Similtartaruga a continuare: «Dacci sotto, collega! Non ci stare tutto il giorno con questa storia!» e quello riprese nel modo seguente: «Eh sì, andavamo a scuola in fondo al mare, anche se tu non ci credi -».

«Non ho mai detto che non ci credo!» lo interruppe Alice.

«Sì che l’hai detto» replicò il Vitello-Similtartaruga.

«E stai un po’ zitta!» aggiunse il Grifone, prima che Alice potesse ribattere. Il Vitello-Similtartaruga ripigliò la sua storia.

«Ricevemmo un’educazione che era fra le migliori – infatti, andavamo a scuola tutti i giorni -».

«Ma anch’io andavo a scuola tutti i giorni!» esclamò Alice. «Non vedo cosa ci sia di eccezionale».

«E gli extra, ce li avevi?» si informò il Vitello-Similtartaruga, piuttosto preoccupato.

«Certo» rispose Alice, «avevamo francese e musica».

«E il bucato?» domandò il Vitello-Similtartaruga.

«Ma no, naturalmente!» rispose Alice, sdegnata.

«Ah, ecco! Vedi che la tua non era una buona scuola» disse il Vitello-Similtartaruga con grande sollievo. «Da noi, invece, in fondo al programma c’era scritto: francese, musica e bucato pagamento a parte».

«Non dovevate averne troppo bisogno» osservò Alice, «vivendo in fondo al mare».

«Io non potevo permettermi di pagare gli extra» disse il Vitello-Similtartaruga con un sospiro. «Seguivo solo il corso principale».

«Che cosa vi insegnavano?» volle sapere Alice.

«A suggere e a stridere, naturalmente, come prima cosa» rispose il Vitello-Similtartaruga, «e poi le diverse branche dell’Aritmetica: – Ambizione, Distrazione, Bruttificazione e Derisione».

«Non ho mai sentito la parola “Bruttificazione”» si arrischiò a dire Alice. «Che cos’è?»

Il Grifone alzò le sue due zampe in un gesto di grande sorpresa. «Magnificare, almeno, lo sai cosa vuol dire?»

«Sì» rispose Alice dubbiosa: «vuol dire – parlare bene di una cosa – farla sembrare magnifica».

«E allora» concluse il Grifone, «se non capisci cosa vuol dire bruttificare, sei tonta».

Non era un incoraggiamento a fare altre domande, e rivolgendosi al Vitello-Similtartaruga, Alice disse: «Che cos’altro vi insegnavano?»

«Be’, c’era Sottostoria» rispose il Vitello-Similtartaruga, contando le materie sulle pinne, «Sottostoria, antica e moderna, con Ondografia: poi Segno a strascico – il maestro di Segno a strascico era un vecchio grongo che veniva una volta alla settimana a insegnarci il Segno a strascico, la Stiracchiatura, e lo Scarto con l’Inchino».

«Com’è lo Scarto con l’Inchino?» domandò Alice.

«Ah, non riesco più a farlo» rispose il Vitello-Similtartaruga: «sono troppo rigido. E il Grifone non l’ha mai imparato».

«Non ne ho avuto il tempo» spiegò il Grifone: «però io sono andato al Classico. Avevamo per maestro un vecchio granchio, quello sì che era un tipo».

«Io da lui non ci sono mai andato» disse il Vitello-Similtartaruga con un sospiro. «Insegnava Ridolino e Dolor Greggio, così dicevano».

«Quello, quello, proprio quello» confermò il Grifone, sospirando a sua volta: ed entrambe le creature si coprirono il viso con le zampe.

«E quante ore di lezione avevate al giorno?» chiese Alice, desiderosa di cambiar subito argomento.

«Dieci ore il primo giorno» rispose il Vitello-Similtartaruga: «nove il giorno dopo, e così via».

«Curioso come sistema!» esclamò Alice.

«Per questo ci chiamavano scolari» osservò il Grifone, «perché il tempo scolava via un giorno dopo l’altro».

Il concetto era totalmente nuovo per Alice, che ci pensò sopra un poco prima di fare la sua ultima osservazione. «Allora l’undicesimo giorno, avevate vacanza?»

«Naturalmente» rispose il Vitello-Similtartaruga.

«E che cosa facevate al dodicesimo?» chiese ancora Alice, con grande interesse.

«Basta con la scuola» interruppe il Grifone con un tono deciso. «Adesso raccontale qualcosa dei giochi».

CAPITOLO X • LA QUADRIGLIA DELLE ARAGOSTE

Il Vitello-Similtartaruga tirò un profondo sospiro, e si passò il dorso di una pinna sugli occhi. Guardò Alice e fece per parlare, ma per un paio di minuti ebbe la voce soffocata dai singhiozzi. «È come se avesse una spina in gola» spiegò il Grifone; e si mise di gran lena a scuoterlo e a dargli pugni sulla schiena. Alla fine il Vitello-Similtartaruga recuperò la voce, e fra le lacrime che gli rigavano le guance, ripigliò:

«Non credo che tu abbia vissuto a lungo in fondo al mare -» («No, infatti» rispose Alice) «- e forse non ti hanno mai fatto conoscere un’aragosta -» (Alice stava per dire «Una volta ho assaggiato -» ma si arrestò in tempo e invece disse «No, mai») «- e quindi non puoi immaginarti quanto sia divertente una Quadriglia di Aragoste!»

«No, davvero» rispose Alice. «Che specie di ballo sarebbe?»

«Ecco» spiegò il Grifone, «prima di tutto si forma una fila lungo la spiaggia -».

«Due file!» corresse il Vitello-Similtartaruga. «Foche, tartarughe, salmoni e così via: poi, una volta tolte di mezzo tutte le meduse -».

«E ci vuole sempre un bel po’ di tempo» interruppe il Grifone.

«- si viene avanti a due alla volta -».

«Il cavaliere deve essere sempre un maschio di aragosta!» gridò il Grifone.

«È evidente!» disse il Vitello-Similtartaruga: «- si viene avanti due alla volta, con il cavaliere prescelto-».

«- si cambia il cavaliere e si torna indietro nello stesso ordine» continuò il Grifone.

«Poi, naturalmente» proseguì il Vitello-Similtartaruga, «si scaraventano le -».

«Le aragoste!» si mise a urlare il Grifone, facendo un salto in aria.

«In mezzo al mare, il più lontano possibile -».

«Si inseguono a nuoto!» strillò il Grifone.

«Si fa un salto mortale nell’acqua!» gridò il Vitello-Similtartaruga, mettendosi a far gran capriole come impazzito.

«Si cambiano le aragoste un’altra volta!» berciò il Grifone con tutto il fiato che aveva in corpo.

«E si ritorna a terra – qui finisce la prima figura» disse il Vitello-Similtartaruga, con una voce che d’improvviso era calata di tono; e le due creature, che fino a quel momento non avevano fatto altro che far piroette come saltimbanchi, si rimisero a sedere tranquille tranquille e, con una grande aria triste, guardarono Alice.

«Deve essere un ballo fantastico!» commentò Alice timidamente.

«Vuoi che te lo facciamo vedere?» domandò il Vitello-Similtartaruga.

«Mi piacerebbe tantissimo» rispose Alice.

«Su, proviamo la prima figura!» disse il Vitello-Similtartaruga al Grifone. «Possiamo farlo anche senza aragoste. Chi canta?»

«Canti tu» rispose il Grifone. «Io ho scordato le parole».

E si misero solennemente a ballare girando attorno ad Alice, a volte pestandole i piedi quando le passavano troppo vicino e scuotendo le grosse zampe anteriori per segnare il tempo, mentre il Vitello-Similtartaruga cantava malinconico e grave la seguente canzone:

Un nasello a una lumaca, – «Vuoi andar» disse, «più lesta?

Ho qua dietro un marsuino, – che la coda mi calpesta.

Tartarughe ed aragoste, – è una schiera che s’avanza!

E ci aspettan sulla spiaggia. – Vuoi unirti nella danza?

Vieni, vuoi, vieni, vuoi, – vuoi unirti nella danza?

Vieni, vuoi, vieni, vuoi, – vuoi unirti nella danza?

Non puoi certo immaginare, – quale gioia sia provare

D’esser prese da aragoste, – e lanciate in mezzo al mare!»

Sospettosa la lumaca, – disse: «È troppa la distanza!

Ti ringrazio, bel nasello, – ma non vengo nella danza.

Sì, vorrei, sì sì potrei, – ma non vengo nella danza.

Sì, vorrei, sì sì potrei, – ma non vengo nella danza».

«Cosa importa la distanza?» – disse lo squamato amico,

«Troveremo un’altra spiaggia – là, oltre il mare, te lo dico.

Più abbandoni l’Inghilterra – e più vai verso la Francia –

Lumachina pallidina, – vieni dunque nella danza?

Vieni, vuoi, vieni, vuoi, – vuoi unirti nella danza?

Vieni, vuoi, vieni, vuoi, – vuoi unirti nella danza?»

«Vi ringrazio. Un ballo di grande interesse, davvero» disse Alice, contenta che fosse finalmente finito: «e mi piace tantissimo quella strana canzone sul nasello!»

«Ah, i naselli!» disse il Vitello-Similtartaruga. «Sono – ma tu li conosci, allora?»

«Sì, certo» rispose Alice, «li ho visti spesso a tavo -», ma si arrestò in tempo.

«Non so dove sia questo Tavo» disse il Vitello-Similtartaruga: «ma se li hai visti tanto spesso, allora saprai come sono».

«Credo di sì» rispose Alice, soprappensiero. «Si tengono la coda in bocca – e sono tutti coperti di pan grattato».

«Sul pan grattato ti sbagli» disse il Vitello-Similtartaruga: «Lo lava via l’acqua di mare. Ma la coda in bocca ce l’hanno davvero. E la ragione è -» qui tirò un gran sbadiglio, chiudendo gli occhi. «Digliela tu la ragione, e tutto il resto» disse al Grifone.

«La ragione è che loro ci volevano andare, eccome, al ballo con le aragoste, e perciò si sono fatti scaraventare in mezzo al mare. Siccome dovevano cadere il più lontano possibile, si sono messi la coda fra i denti, tenendola bella stretta, così stretta che non sono più riusciti a mollarla. Tutto qui».

«Grazie» gli disse Alice, «è molto interessante. Non le sapevo tutte queste cose sui naselli».

«Te ne potrei dire tante altre» disse il Grifone. «Sai perché si chiamano naselli?»

«Non ci ho mai pensato» disse Alice. «Perché?»

«Servono per infilarci i bottoni» rispose il Grifone solennemente.

Alice ne fu completamente sconcertata. «Servono per infilarci i bottoni?» ripeté meravigliata.

«Voi cosa ci fate ai grembiulini per poterli chiudere?» domandò il Grifone. «Voglio dire, dopo aver messo i bottoni?»

Alice si guardò il grembiulino, e ci pensò un attimo prima di dare una risposta. «Ci facciamo gli occhielli».

«In fondo al mare» spiegò il Grifone con voce profonda, «noi ci facciamo i naselli. Ora lo sai».

«E come li cucite i grembiulini?» chiese Alice, assai incuriosita.

«Con il pesce ago, naturalmente» rispose il Grifone, con una certa impazienza, «lo sanno perfino i gamberi».

«Se io fossi stata il nasello» disse Alice, che stava ripensando alla canzone, «avrei detto al marsuino “Fai il piacere di andar via! Non abbiamo bisogno di te!”»

«Erano obbligati a tenerlo» spiegò il Vitello-Similtartaruga. «Nessun pesce che si rispetti va a un ballo senza il marsuino».

«Davvero?» chiese Alice, estremamente sorpresa.

«Ma certo» replicò il Vitello-Similtartaruga. «Quando c’è un pesce che viene da me e mi invita a un ballo, io gli chiedo sempre “Che marsuino mi metto?”»

«Forse intendi dire “Marsina”?» disse Alice.

«Intendo dire ciò che dico» replicò il Vitello-Similtartaruga con il tono offeso. E il Grifone aggiunse: «E adesso, sentiamo un po’ le tue avventure».

«Posso raccontarvi le mie avventure a cominciare da questa mattina» rispose Alice, con una certa apprensione, «ma è inutile che vi parli di ieri, perché ieri ero una persona diversa».

«Spiegaci un po’ questa faccenda» disse il Vitello-Similtartaruga.

«No, no! Prima le avventure» protestò il Grifone con impazienza, «le spiegazioni fanno sempre perdere tempo!»

E allora Alice cominciò a raccontare le sue avventure a cominciare da quando aveva visto il Coniglio Bianco per la prima volta. Era un po’ nervosa, ma solo all’inizio, con quelle due creature che le stavano a ridosso, occhi e bocche talmente spalancate; poi prese coraggio e tirò avanti bene. Il suo pubblico se ne stette perfettamente zitto fino a quando arrivò al punto in cui aveva ripetuto «Sei vecchio, pa’ Guglielmo» al Bruco, e le parole le erano venute fuori tutte diverse, e allora il Vitello-Similtartaruga inspirò profondamente e disse: «Davvero una cosa curiosa!»

«Quanto di più curioso ci possa essere» osservò il Grifone.

«Le son venute delle parole tutte diverse!» ripeté il Vitello-Similtartaruga, pensoso. «Mi piacerebbe farle provare a ripetere qualcosa adesso. Diglielo tu». E guardò il Grifone come se pensasse che lui avesse qualche autorità su Alice.

«Alzati in piedi e recita Il pigrone» le ordinò il Grifone.

«Comandano sempre a bacchetta, questi qui, e mi fanno ripetere le lezioni!» pensava Alice. «Mi pare quasi di essere a scuola!» Ciononostante, si alzò in piedi, e cominciò a ripetere la poesia, ma aveva la testa ancora così piena della Quadriglia delle Aragoste, che quasi non sapeva quello che diceva, e le vennero delle parole strambe davvero:

«Maschio son dell’Aragosta!» – l’han sentito dire quelli,

«M’han bruciato dentro al forno: – metto miele sui capelli».

Come l’anatra col ciglio, – lui col naso si rassetta

Barba, bavero e bottoni, – e ai ditoni fa toeletta.

Sulla sabbia bella asciutta, – è tutto allegro e ciarliero;

Va dicendo peste e corna – dello Squalo masnadiero;

Ma, se la marea risale, – e lo Squalo si avvicina,

La sua voce tremolante – va a finire giù in cantina.

«È molto diversa da quella che sapevo io da bambino» osservò il Grifone.

«Mah, io non la conosco» disse il Vitello-Similtartaruga, «mi sembra un nonsenso piuttosto insolito».

Alice non disse niente: si era rimessa a sedere coprendosi il viso con le mani: chissà quando le cose sarebbero tornate a succedere nel solito modo normale!

«Vorrei la spiegazione di questa poesia» disse il Vitello-Similtartaruga.

«Ma non te la sa spiegare» disse il Grifone in fretta. «Vai avanti con la seconda strofa».

«Ma quei ditoni?» insistette il Vitello-Similtartaruga. «Come fa a far toeletta ai ditoni e a rassettarsi con il naso?»

«È la prima figura del ballo» spiegò Alice, ma l’intera faccenda la sconcertava talmente che avrebbe voluto cambiare subito argomento.

«Vai avanti con la seconda strofa» ripeté il Grifone: «comincia con “Dal di lui giardin passando”». Alice non ebbe il coraggio di disobbedire, anche se era sicura che sarebbe venuta fuori completamente diversa, e riprese con voce tremante:

«Dal di lui giardin passando, – per un caso ebbi notato

La Pantera con il Gufo, – che mangiavan lo stufato:

Sugo, carne e patatine, – la Pantera si mangiò

Mentre al Gufo, poveretto, – nudo il piatto gli restò.

Gentilmente al caro Gufo – lo stufato era finito –

Il Cucchiaio come premio – venne infine conferito.

Il Coltello e la Forchetta – la Pantera preferì,

E per chiudere il banchetto, – quel buon Gufo si ingh-».

«Che senso ha ripetere tutta quella roba» la interruppe il Vitello-Similtartaruga, «se non la spieghi via via che la dici? È la cosa più confusa che io abbia mai sentito!»

«Sì, ti conviene lasciar perdere» disse il Grifone, e Alice fu assai felice di accontentarlo.

«Proviamo a fare un’altra figura della Quadriglia delle Aragoste?» soggiunse il Grifone. «O preferisci che il Vitello-Similtartaruga ci canti un’altra canzone?»

«Oh, una canzone per piacere, se il Vitello-Similtartaruga fosse così gentile» rispose Alice con tanto entusiasmo che il Grifone se ne risentì e disse: «Mah, tutti i gusti son gusti! Cantale la canzone della Zuppa di Tartaruga, ti va?»

Il Vitello-Similtartaruga tirò un profondo sospiro e con la voce rotta dai singhiozzi cominciò a cantare:

«Che buona zuppa, calda e invitante,

Nella zuppiera bella e fumante.

Chi non si scioglie in commozion vera?

Che buona la zuppa, la zuppa alla sera!

Che buona la zuppa, la zuppa alla sera!

Che buo – o – o – ona la zu – u – u – uppa!

Che buo – o – o – ona la zu – u – u – uppa!

La zu – u – u – uppa alla se – e – e – era!

Che buona, che buona, la zuppa!

Che buona zuppa! Chi vuole il pesce?

Cacciagion? Torte? No, mi rincresce!

Chi non darebbe la vita interaaa

Per due soldi di zuppa alla sera?

Per due soldi di zuppa alla sera?

Che buo – o – o – ona la zu – u – u – uppa!

Che buo – o – o – ona la zu – u – u – uppa!

La zu – u – u – uppa alla se – e – e – era!

Che buona, che BUONA LA ZUPPA!»

«Ripeti il ritornello!» gridò il Grifone, e il Vitello-Similtartaruga aveva appena cominciato a ripeterlo, quando si udì un vociare lontano «Il processo incomincia!»

«Seguimi!» gridò il Grifone, e prendendo Alice per mano, corse via senza aspettare la fine della canzone.

«Ma quale processo?» chiese Alice ansimando nella corsa, ma il Grifone rispose soltanto. «Seguimi!» e aumentò la velocità, mentre via via sempre più deboli echeggiavano, portate dal vento, le malinconiche parole:

«La zu -u-u-u- ppa alla se -e-e-e- ra!

Che buona, che buona, la zuppa!»

CAPITOLO XI • CHI HA RUBATO LE FRITTELLE?

Arrivando, trovarono il Re e la Regina di Cuori seduti sul trono, con una gran folla riunita tutt’intorno a loro, formata da tanti uccellini e bestiole varie nonché dall’intero mazzo di carte: davanti al trono, c’era il Fante, in catene, in mezzo a due soldati che lo guardavano a vista, mentre il Coniglio Bianco aveva una tromba in una mano e un rotolo di pergamena nell’altra. Al centro esatto della Corte c’era un tavolo con sopra un enorme piatto di frittelle: sembravano così buone che ad Alice venne l’acquolina in bocca. «Come vorrei che

il processo fosse finito» pensava, «e i rinfreschi distribuiti in giro a tutti». Ma la cosa era assai poco probabile, e allora cominciò a guardarsi attorno tanto per passare il tempo.

Alice non era mai stata in una corte d’assise, ma ne aveva letto qualcosa sui libri ed ebbe il piacere di scoprire che sapeva il nome di quasi tutto. «Quello è il giudice» diceva fra sé, «perché ha la parrucca».

Il giudice non era altri che il Re: e siccome portava la corona sopra la parrucca (date un’occhiata al frontespizio per vedere come era combinato), non aveva un’aria molto disinvolta, né si può dire che fosse attraente.

«E quello è il banco della giuria» pensava Alice, «e quelle dodici creature» (le chiamava “creature”, perché essendo in parte animali e in parte uccelli, non le venivano altri termini), «devono essere i giurati». Ripeté quest’ultima parola per due o tre volte fra sé, con una certa fierezza, perché pensava, e aveva senza dubbio ragione, che ben poche ragazzine della sua età ne conoscevano l’esatto significato. Comunque, «membri della giuria» sarebbe andato altrettanto bene.

I dodici giurati erano tutti occupatissimi a scrivere sopra delle lavagnette. «Ma cosa fanno?» sussurrò Alice al Grifone. «Non c’è niente da scrivere, fino a che non comincia il processo».

«Scrivono i propri nomi» sussurrò a sua volta il Grifone, in risposta, «perché hanno paura di dimenticarseli prima che il processo sia finito».

«Che stupidi!» sbottò Alice indignata e a voce alta; ma si interruppe subito, perché il Coniglio gridò: «Silenzio in aula!» e il Re, inforcati gli occhiali, si guardò attorno allarmato per scoprire chi stava parlando.

Alice vide chiaramente, come se stesse guardando da sopra le loro spalle, che i giurati scrivevano «Che stupidi!» sulle lavagnette, e si accorse perfino che uno di loro non sapeva come si scrive «stupidi» e chiedeva aiuto al vicino. «Chissà che pasticcio ci sarà su quelle lavagnette prima che il processo sia finito!» pensò Alice.

Uno dei giurati aveva una matita che strideva. Era una cosa che Alice non poteva sopportare, e facendo il giro attorno alla corte, gli arrivò alle spalle e alla prima occasione gliela strappò dalle mani. Lo fece con un gesto di tale destrezza che il povero piccolo giurato (era Bill, il Lucertolino) non capì proprio cosa fosse successo alla sua matita e dopo averla cercata disperatamente dappertutto, fu costretto a scrivere con un dito per il resto della giornata, con ben scarsi risultati, dato che il dito non lasciava nessuna traccia sulla lavagna.

«Araldo, leggi l’imputazione!» proferì il Re.

Al che il Coniglio Bianco diede tre squilli di tromba, e poi, srotolata la pergamena, lesse quanto segue:

«La Regina di Cuori, una mattina di festa,

fece tante frittelle

con dentro il parmigiano.

Il Fante di Cuori, brigante mano lesta,

rubò quelle frittelle,

e le portò lontano».

«Pronunciate il verdetto» disse il Re ai giurati.

«Non ancora, non ancora!» lo interruppe il Coniglio precipitosamente. «Ci sono un sacco di cose prima del verdetto!»

«Chiamate il primo testimone» disse il Re, e il Coniglio Bianco diede tre squilli di tromba e poi gridò: «Avanti il primo testimone!»

Il primo testimone era il Cappellaio. Venne avanti con una tazza di tè in una mano e una fetta di pane imburrata nell’altra. «Imploro il perdono della Maestà vostra» cominciò «per essere venuto con queste cose in mano, ma non avevo ancora finito di bere il tè quando mi sono venuti a chiamare».

«Avresti dovuto aver finito» disse il Re. «Quando hai cominciato?»

Il Cappellaio guardò il Leprotto Marzolino, che era entrato nella corte dopo di lui, tenendo il Ghiro a braccetto. «Il quattordici di marzo, mi pare» rispose.

«Il quindici» corresse il Leprotto Marzolino.

«Il sedici» disse il Ghiro.

«Prendete nota» ordinò il Re alla giuria, e tutti i giurati scrissero con grande zelo le tre date sulla lavagnetta, e poi tirarono le somme, e calcolarono anche la percentuale d’imposta.

«Il tuo cappello – toglitelo!» ordinò il Re al Cappellaio.

«Non è il mio cappello» rispose il Cappellaio.

«Allora l’hai rubato!» esclamò il Re, rivolgendosi alla giuria, che immediatamente prese nota del fatto.

«Li tengo per venderli» aggiunse il Cappellaio come spiegazione. «Di miei, non ne ho neanche uno. Faccio il cappellaio».

A questo punto la Regina inforcò gli occhiali, e puntò gli occhi sul Cappellaio, che subito impallidì e cominciò a tremare, innervosito.

«Fai la tua deposizione» ordinò il Re, «e non t’innervosire o ti farò giustiziare sul posto».

Non era esattamente quel che si dice una frase di incoraggiamento: il Cappellaio cominciò a ciondolare prima su un piede e poi sull’altro, mentre guardava imbarazzato la Regina, e nella sua confusione addentò l’orlo della tazza invece del pane imburrato.

In quel preciso momento, Alice provò una sensazione stranissima che la sconcertò non poco, fino a che non si rese conto di cos’era: aveva ricominciato a crescere, e in un primo momento pensò di alzarsi e di lasciare la corte; ma poi, ripensandoci, decise di restarsene lì, almeno finché ci fosse stato posto.

«Mi stai schiacciando» disse il Ghiro, che era seduto proprio vicino a lei. «Quasi non respiro più».

«Non ci posso far niente» gli rispose Alice, dolce dolce. «Sto crescendo».

«Non hai il diritto di crescere, qui» disse il Ghiro.

«Non dire cretinate» replicò Alice con più energia, «cresci anche tu, e lo sai!»

«Certo, ma io cresco in modo ragionevole» rispose il Ghiro: «non in questo modo ridicolo». E, scocciatissimo, si alzò per andare dall’altra parte della corte.

Per tutto quel tempo, la Regina non aveva mai smesso di tenere gli occhi puntati sul Cappellaio e mentre il Ghiro stava attraversando la corte, disse rivolta a uno degli uscieri,

«Portatemi la lista dei cantanti dell’ultimo concerto!» al che il povero Cappellaio prese a tremare con tanta forza che gli si sfilarono le scarpe dai piedi.

«Fai la tua deposizione» ripeté il Re, furioso, «o ti farò giustiziare, sia che t’innervosisca oppure no».

«Io sono un povero diavolo, vostra Maestà» cominciò il Cappellaio, con voce tremante, «e non avevo ancora cominciato a prendere il mio tè – non più di una settimana fa – e con le fette di pane e burro che erano diventate così sottili – e il baluginìo del tè -».

«Il baluginìo di che cosa?» domandò il Re.

«Tutto cominciò col tè» rispose il Cappellaio.

«Cominciò con me?» replicò seccato il Re. «Cosa vorresti insinuare? Continua!»

«Sono un povero diavolo» riprese il Cappellaio, «e tante cose hanno preso a baluginare da allora – ma il Leprotto Marzolino ha detto -».

«Non è vero!» lo interruppe immediatamente il Leprotto Marzolino.

«Sì che è vero!» disse il Cappellaio.

«Lo nego!» disse il Leprotto Marzolino.

«Lo nega» disse il Re, «lasciate perdere questa parte».

«Be’, allora fu il Ghiro a dirlo» riprese il Cappellaio, guardandosi attorno ansioso per vedere se anche il Ghiro avesse negato, ma quello non negò nulla, perché dormiva della grossa.

«Dopo di che» continuò il Cappellaio, «tagliai qualche altra fetta di pane -».

«Ma che cosa disse il Ghiro?» domandò uno dei giurati.

«Ah, non me lo ricordo» rispose il Cappellaio.

«Te lo devi ricordare» obiettò il Re, «o ti farò giustiziare».

Il disgraziato Cappellaio lasciò cadere per terra la tazza e la fetta di pane, e si piegò su un ginocchio. «Io sono un povero diavolo, vostra Maestà» cominciò.

«Tu sei un povero oratore, caro mio!» disse il Re.

A questo punto uno dei porcellini d’India applaudì, ma fu immediatamente soffocato dagli uscieri. (Se volete sapere come fecero a soffocarlo, vi dirò che presero un grosso sacco di tela coi lacci per la chiusura, vi infilarono dentro il porcellino d’India a testa in giù e ci si sedettero sopra.)

«Sono contenta di aver visto come fanno» pensò Alice. «Quante volte leggendo la cronaca di un processo sul giornale, ho trovato la frase “Ogni tentativo di applauso fu immediatamente soffocato dagli uscieri”, ma non avevo mai capito cosa intendessero dire».

«Se non c’è altro, puoi metterti giù» continuò il Re.

«Più giù di così non posso andare» rispose il Cappellaio. «Sono praticamente per terra».

«Allora siediti» replicò il Re.

A questo punto, ci fu l’applauso di un altro porcellino d’India, che venne subito soffocato.

«Bene! Questa è la fine dei porcellini d’India» pensò Alice. «Ora andremo avanti meglio».

«Preferirei finire il mio tè» disse il Cappellaio, lanciando uno sguardo ansioso alla Regina, che stava leggendo la lista dei cantanti.

«Puoi andare» concesse il Re, e il Cappellaio si allontanò in gran fretta, senza nemmeno mettersi le scarpe.

«- e tagliategli la testa appena è fuori» aggiunse la Regina rivolta a uno degli uscieri; ma il Cappellaio era già sparito prima che l’usciere avesse raggiunto la soglia.

«Chiamate il secondo testimone!» proferì il Re.

Il secondo testimone era la cuoca della Duchessa. Fece la sua comparsa con la pepaiola in mano, ma ancor prima che facesse il suo ingresso in aula, Alice aveva indovinato chi fosse dal modo in cui tutte le persone sedute vicino alla porta si erano messe a starnutire.

«Fai la tua deposizione» disse il Re.

«Non la farò» rispose la cuoca.

Il Re lanciò un’occhiata disperata al Coniglio Bianco, che gli disse a bassa voce: «Vostra Maestà dovrà procedere a un controinterrogatorio».

«Mah, se proprio devo -» disse il Re con aria profondamente malinconica, e dopo aver incrociato le braccia, aggrottando la fronte fino quasi a far sparire gli occhi mentre fissava la cuoca, disse: «Con che cosa si fanno le frittelle?»

«Con il pepe, soprattutto» rispose la cuoca.

«Con la melassa» replicò una voce assonnata dietro di lei.

«Agguantate quel Ghiro per il collo!» si mise a strillare la Regina. «Tagliate la testa a quel Ghiro! Sbattete quel Ghiro fuori dall’aula! Soffocatelo! Prendetelo a pizzicotti! Rasategli le basette!»

Per qualche minuto, tutto il tribunale fu sottosopra per cercare di buttar fuori il Ghiro e quando ognuno ebbe ripreso il proprio posto, la cuoca era scomparsa.

«Poco importa!» disse il Re, come se provasse un gran sollievo. «Chiamate il terzo testimone!» E aggiunse, parlando sottovoce alla Regina: «Mia cara, fammi il piacere di controinterrogare tu il prossimo testimone. Mi è venuto un gran mal di testa!»

Alice osservò il Coniglio Bianco che annaspava sulla lista, e moriva dalla curiosità di vedere che tipo fosse il terzo testimone, «- perché finora non hanno raccolto molte prove» pensava fra sé. Immaginatevi quale fu la sua sorpresa, quando il Coniglio Bianco lesse, con tutta la forza della sua vocetta stridula, il nome di «Alice!»

CAPITOLO XII • LA TESTIMONIANZA DI ALICE

«Eccomi!» esclamò Alice, e del tutto dimentica nell’eccitazione del momento di quanto fosse cresciuta negli ultimi minuti, balzò in piedi con tanta furia che rovesciò il banco della giuria con l’orlo della sottana: tutti i giurati furono catapultati addosso al pubblico che stava di sotto, e furono sparsi per terra qua e là, come i pesciolini rossi della boccia di vetro che Alice aveva inavvertitamente rovesciato la settimana prima.

«Oh, scusatemi tanto!» esclamò addoloratissima, e subito prese a raccattarli da terra con grande premura, perché l’incidente dei pesciolini rossi continuava a ronzarle per il capo, e si era come fatta l’idea che, se non li rimetteva immediatamente tutti al loro posto nel banco della giuria, sarebbero morti.

«Il processo non può continuare» proferì il Re, con un tono molto grave, «fino a che i giurati non saranno rimessi al loro posto – tutti i giurati» ripeté con grande enfasi, e mentre parlava guardava Alice in malo modo.

Alice esaminò il banco della giuria, e si accorse che nella fretta aveva messo il Lucertolino a testa in giù, e la povera bestiolina agitava la coda tristemente, del tutto incapace di muoversi. Subito lo prese e lo raddrizzò; «non che faccia una gran differenza» pensava fra sé, «per quel che serve al processo, dritto o capovolto, sarebbe lo stesso».

Non appena i giurati si furono un po’ ripresi dallo scombussolamento, e riebbero indietro tutte le lavagnette e le matite che erano andate perse, si misero di gran lena e molto diligentemente a scrivere il resoconto dell’incidente, tutti tranne uno, il Lucertolino, che sembrava troppo sconvolto per far qualsiasi cosa che non fosse starsene a bocca aperta a fissare il soffitto.

«Che ne sai tu di questa faccenda?» domandò il Re ad Alice.

«Niente» rispose Alice.

«Niente di niente?» insistette il Re.

«Niente di niente» confermò Alice.

«Mi sembra che sia sufficiente» disse il Re, rivolgendosi ai giurati. Questi avevano appena cominciato ad annotare tutto quanto sulle loro lavagnette, quando il Coniglio Bianco intervenne: «Insufficiente, voleva certo dire la Maestà vostra» obiettò con un tono molto rispettoso, ma intanto aggrottava la fronte e faceva le boccacce. «Insufficiente, certo, è quello che volevo dire» si affrettò a dire il Re, e continuò a ripetere a parte fra sé e sé, «sufficiente – insufficiente – insufficiente – sufficiente -» come se volesse provare quale parola suonasse meglio.

Qualche giurato scrisse «sufficiente», e qualche altro «insufficiente». Alice vide benissimo quello che scrivevano, perché era abbastanza vicina da poter leggere sulle loro lavagnette, «non che faccia la minima differenza», pensò fra sé.

A questo punto il Re, che stava alacremente scrivendo degli appunti su di un suo quaderno, gridò «Silenzio!» e lesse a voce alta dal quaderno: «Regola Quaranta-Due. Tutti coloro che sono più alti di un chilometro debbono lasciare l’aula».

Tutti i presenti puntarono gli occhi su Alice.

«Io non sono alta un chilometro» proclamò Alice.

«Sì che lo sei» disse il Re.

«Sei alta quasi due chilometri» aggiunse la Regina.

«Comunque, io non vado via» replicò Alice; «e inoltre, non è veramente una regola: ve la siete inventata in questo momento».

«È la regola più vecchia che ho sul quaderno» disse il Re.

«Allora, dovrebbe essere la regola Numero Uno» replicò Alice.

Il Re impallidì, e richiuse di colpo il quaderno. «Pronunciate il verdetto» ordinò alla giuria, con voce debole e tremante.

«Ci sono delle altre testimonianze, se la Maestà vostra lo consente» disse il Coniglio Bianco, balzando in piedi con prontezza; «è stato appena rinvenuto questo foglio».

«Che cosa c’è scritto?» domandò la Regina.

«Non l’ho ancora aperto» rispose il Coniglio Bianco, «ma sembrerebbe una lettera, scritta dall’imputato a – a qualcuno».

«Così dev’essere, per forza» disse il Re, «a meno che non l’abbia scritta a nessuno, il che sarebbe piuttosto insolito, no?»

«A chi è indirizzata?» chiese uno dei giurati.

«Non c’è l’indirizzo» rispose il Coniglio Bianco; «in realtà, fuori non c’è scritto niente». Aprì il foglio mentre parlava, e aggiunse: «In effetti non è una lettera: è un elenco di versi».

«E la calligrafia, è dell’imputato?» domandò un altro dei giurati.

«No, non è la sua calligrafia» rispose il Coniglio Bianco, «e questa è la cosa più strana di tutta la faccenda». (La giuria era tutta molto perplessa.)

«Avrà imitato la calligrafia di qualcuno» disse il Re. (La giuria si rianimò tutta.)

«Col permesso della Maestà vostra» disse il Fante, «non sono stato io a scrivere quei versi, e nessuno può provare che sia stato io: non c’è neanche la firma in fondo».

«Se non ci hai messo la firma» disse il Re, «è ancora peggio. Dovevi avere in mente qualche misfatto, altrimenti avresti messo la firma, da uomo d’onore».

Tutti batterono le mani a questa affermazione del Re: era la prima cosa veramente intelligente che avesse detto in tutta la giornata.

«Ciò prova la sua colpevolezza, naturalmente» disse la Regina: «e dunque, tagl-».

«Ciò non prova un bel niente!» obiettò Alice. «Via, non sapete neanche di cosa parlino i versi!»

«Leggili!» disse il Re.

Il Coniglio Bianco si mise gli occhiali. «Da dove devo iniziare, vostra Maestà?» domandò.

«Inizia dall’inizio» rispose il Re con gravità, «poi vai avanti fino alla fine: quindi ti fermi.»

In aula c’era un silenzio mortale quando il Coniglio Bianco prese a leggere i seguenti versi:

«Eri con lei, dissero a me,

Con lui non ce l’ho:

Io son sincero con te,

Ma nuotar non so.

Che restai, lui glielo scrisse

(Noi sappiam che è vero):

Ma s’ella ha idee fisse,

Il futuro è nero.

Due loro a lui, io una a lei,

Tre a noi ne hai date:

Le ridié tutti a te, direi,

Se pure a me donate.

Presi assai malvolentieri,

Lei, e io poi,

Loro li lasciasti ieri,

Liberi come noi.

Benché fosse fuggito

(Lei ebbe una crisi)

In ciò che vi ha spartito

Anch’io mi ci misi.

Che lei scelse in concreto

Di star con loro, be’,

Deve essere un segreto

Stretto fra te e me».

«Questa è la prova più decisiva che abbiamo» disse il Re, fregandosi le mani, «lasciamo, dunque, che la giuria -».

«Se ce n’è uno nella giuria che sia in grado di spiegarmela» disse Alice (negli ultimi minuti era diventata così grande che non ebbe un briciolo di paura a interromperlo), «sono pronta a dargli dieci soldi. Secondo me, non c’è un atomo di senso in quel foglio».

Tutti i giurati scrissero sulle lavagnette: «Secondo lei, non c’è un atomo di senso», ma nessuno si azzardò a spiegare il significato della lettera.

«Ma se non c’è alcun senso» disse il Re, «tanto meglio, perché vuol dire che non abbiamo bisogno di andarlo a cercare. Tuttavia, non saprei» aggiunse, mentre spiegava il foglio dei versi sulle ginocchia e lo leggeva con un occhio solo, «un qualche significato mi pare di scorgervelo, dopo tutto, “- ma nuotar non so -” tu non sai nuotare, vero?» domandò rivolgendosi al Fante.

Il Fante scosse tristemente il capo. «Vi sembro il tipo?» disse. (E non lo era certamente, essendo fatto tutto di cartone).

«Bene, fin qui» disse il Re: e continuò a rimuginare i versi fra sé e sé: «”Noi sappiam che è vero -” non può riferirsi altro che ai giurati. “Ma s’ella ha idee fisse -” questa è la Regina, non c’è dubbio. “Il futuro è nero -” Nerissimo, davvero! “- Due loro a lui, io una a lei, tre a noi ne hai date -” qui si spiega che fine hanno fatto le frittelle -».

«Ma poi dice, “le ridié tutti a te”» obiettò Alice.

«E infatti, eccole là!» replicò il re, trionfante, indicando le frittelle sul tavolo. «Non potrebbe essere più chiaro di così. E poi, ancora “- Lei ebbe una crisi -” tu non hai mai crisi, vero, cara?» domandò alla Regina.

«Mai!» esclamò la Regina, infuriata, lanciando un calamaio al Lucertolino. (La povera bestiola aveva smesso di scrivere col dito sulla lavagnetta, poiché aveva scoperto che non restava alcun segno; ma ora si affrettò a rimettersi al lavoro, servendosi dell’inchiostro che gli colava giù per il viso, almeno finché durava.)

«Allora sono le parole che vanno in crisi con te» ribatté il Re, guardandosi in giro nell’aula con un sorriso. Ci fu un silenzio di tomba.

«È una battuta di spirito!» aggiunse il Re con un tono rabbioso, e tutti risero. «Che la giuria pronunci il suo verdetto» dichiarò il Re, per la ventesima volta.

«No, no!» gridò la Regina. «Prima la sentenza e poi il verdetto!»

«Che assurdità!» esclamò Alice a voce alta. «Come può esserci la sentenza prima del verdetto!»

«Chiudi il becco!» disse la Regina, facendosi paonazza.

«Nient’affatto!» ribatté Alice.

«Tagliatele la testa!» urlò la Regina con quanto fiato aveva. Nessuno si mosse.

«Che mi importa di voi?» disse Alice (aveva ormai ripreso la sua normale statura). «Non siete altro che un mazzo di carte!»

A questo punto l’intero mazzo si levò in aria e ridiscese in picchiata dandole addosso: lei cacciò uno strillo un po’ per la paura e un po’ per la rabbia, mentre cercava di scrollarle via e si ritrovò infine sdraiata sulla proda, con la testa in grembo alla sorella, la quale le stava delicatamente pulendo il viso dalle foglie secche che le erano cadute addosso dagli alberi.

«Svegliati, Alice!» le diceva la sorella. «Che dormita hai fatto!»

«Oh, ho fatto un sogno così strano!» disse Alice. E raccontò alla sorella tutto quello che ricordava di quelle sue strambe Avventure che voi vi siete lette fino a qui; e quando ebbe finito, la sorella le diede un bacio e le disse: «Davvero uno strano sogno, cara, non c’è dubbio; ma adesso corri a prendere il tuo tè. Si sta facendo tardi». Allora Alice si alzò e corse via, e mentre correva continuava a pensare al suo sogno meraviglioso.

Ma la sorella se ne rimase seduta dov’era, con la testa appoggiata su una mano, mentre guardava il tramonto e pensava alla piccola Alice e alle sue meravigliose Avventure, finché anche lei non si mise a sognare a modo suo e questo fu il suo sogno: –

Dapprima sognò la piccola Alice in persona: la riebbe lì che si aggrappava alle sue ginocchia con le manine e gli occhi lucenti e pieni di desiderio fissi nei suoi – sentì l’esatta intonazione della sua voce, rivide quel buffo modo di buttare all’indietro i capelli che le cadevano sempre sugli occhi – e mentre l’ascoltava, o le sembrava di ascoltarla, tutto il prato intorno si animò riempiendosi delle strambe creature del sogno della sorellina.

Sentì ai suoi piedi i lunghi fili d’erba che frusciavano mentre passava correndo il Coniglio Bianco – il Topo che sguazzava spaventato nello stagno vicino – sentì il tinnire delle tazze mentre il Leprotto Marzolino prendeva il suo interminabile tè con gli amici, e la voce stridula della Regina che ordinava l’esecuzione dei suoi sfortunati ospiti – ancora una volta il bimbo-porcello starnutiva sulle ginocchia della Duchessa nel rovinìo generale delle pentole e delle stoviglie – ancora una volta il grido rauco del Grifone, e lo stridore della matita del Lucertolino sulla lavagnetta, e il rantolo dei porcellini d’India soffocati riempivano l’aria, mescolandosi con il singhiozzo lontano dell’infelice Vitello-Similtartaruga.

Continuava a starsene lì seduta, con gli occhi chiusi, quasi credendo di essere capitata anche lei nel Paese delle Meraviglie, benché sapesse che le sarebbe bastato riaprire gli occhi, e tutto si sarebbe ritrasformato nell’opaca realtà di sempre – l’erba avrebbe frusciato nel vento, e lo stagno si sarebbe increspato sotto l’ondeggiare dei giunchi – il tintinnìo delle tazze sarebbe ridiventato lo scampanellare delle pecore, e gli strilli della Regina la voce del pastorello – e gli starnuti del bimbo, le strida del Grifone e tutti quegli altri suoni strambi si sarebbero rivelati (ne era sicura) per essere il clamore confuso della fattoria dove ferveva il lavoro – mentre il muggito della mandria lontana avrebbe preso il posto degli accorati singhiozzi del Vitello – Similtartaruga.

Infine, cercò di immaginarsi come questa sorellina si sarebbe trasformata in un prossimo futuro, in una donna adulta; e come avrebbe mantenuto attraverso tutti gli anni della sua maturità il cuore semplice e affettuoso dell’infanzia; e come avrebbe riunito attorno a sé altri bambini, rendendo i loro occhi lucidi e pieni di desiderio con innumerevoli racconti strambi, magari anche con il sogno del Paese delle Meraviglie fatto tanti anni prima; e a come avrebbe diviso con loro i loro semplici dolori e goduto di tutte le loro semplici gioie, nel ricordo della propria infanzia, e delle felici giornate d’estate.

idee regalo amazon

Verified by MonsterInsights