Pollicino

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Pollicino è una celebre fiaba di Charles Perrault, originariamente pubblicata nel 1697. Carlo Collodi traduce la fiaba in italiano col titolo Puccettino.

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Pollicino DA LEGGERE

Versione di Charles Perrault

C’era una volta una coppia di poveri boscaioli, marito e moglie, che avevano sette figli piccoli non ancora in grado di guadagnarsi il pane.

Il minore di tutti, un bimbetto gracilino e silenzioso, ma molto intelligente, quando era venuto al mondo era alto poco più di un pollice: per questo lo avevano chiamato Pollicino.

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E venne un’annata di terribile carestia come non se ne erano mai viste prima. Nove bocche da sfamare erano tante e così i due poveri genitori, col cuore stretto dal dolore, non sapendo cos’altro fare, decisero di sbarazzarsi dei figli. Ne parlarono a lungo una sera, accanto al fuoco.

— Li porteremo nella foresta — disse il boscaiolo — e, mentre raccolgono fascine, ce la daremo a gambe senza che se ne accorgano.

Poveri i miei piccini! — singhiozzò la donna. — Soli, nella foresta, al freddo, in balia delle belve…

— Vuoi vederteli morir di fame sotto i nostri occhi, allora? — la rimproverò il taglialegna. Ma intanto anche lui piangeva.

Finalmente si misero d’accordo e andarono a letto. Non si erano accorti che Pollicino, nascosto sotto il tavolo, aveva udito tutto.

E ora, come ce la caveremo? — si chiese il bambino.

Pensa e ripensa, ebbe un’idea: all’alba corse in riva al ruscello che scorreva vicino a casa, si riempì le tasche di sassolini bianchi che abbondavano lì intorno, e senza che nessuno sospettasse niente, rientrò in casa.

Più tardi i genitori radunarono i sette figli e li condussero nel folto della foresta, ordinarono loro di raccogliere legna, e poi, in punta di piedi, se la svignarono.

Lista Nascita

Quando i bambini si resero conto di essere rimasti soli, cominciarono a piangere disperatamente. Pollicino li consolò.

— Non abbiate paura, fratelli miei, io so come ritrovare la via perché, cammin facendo, ho lasciato cadere a terra dei sassolini bianchi che ci guideranno di nuovo a casa.

E tutti e sette si misero in cammino, seguendo la traccia lasciata dal furbo Pollicino. I genitori, intanto, erano tornati alla capanna.

C’era ad aspettarli un signore dei dintorni, venuto a portare al boscaiolo dieci denari che gli doveva da tempo. Con quel denaro la donna corse al paese, e comprò una gran quantità di provviste: carne, pane, uova, lardo. Ma la cena fu ugualmente triste, senza i bambini.

Ci fossero i nostri figlioli, a godere di tutto questo ben di Dio. – mormorava il boscaiolo.

Dove saranno, a quest’ora, i miei poveri bambini? — singhiozzava sua moglie, inghiottendo pane e lacrime.

E, proprio in quel momento, si udirono dei colpi alla porta e delle vocette allegre:

— Siamo qui… siamo tornati!

Erano i sette fratellini che, guidati da Pollicino, arrivavano sfiniti per la stanchezza, ma sani e salvi. Vennero accolti con gran gioia.

sfamati e riscaldati, coccolati dai genitori.

La gioia, però durò quanto durarono i dieci scudi, poi nella capanna si ricominciò a soffrire la fame. E, con la fame, si riaffacciò di nuovo l’idea di disfarsi dei bambini, di affidarli alla provvidenza, abbandonandoli ancora una volta nella foresta.

Pollicino, che stava in guardia, quando udì i discorsi dei genitori, pensò bene di correre ai ripari.

Avrebbe voluto andare a raccogliere i sassolini in riva al ruscello, ma non poté farlo perché trovò la porta sprangata e lui, così piccolo non arrivava al chiavistello.

Allora, in mancanza di meglio, si riempì le tasche di chicchi di grano, un po’ ammuffiti, che trovò in fondo alla credenza.

La mattina seguente i genitori portarono i bambini nel folto della foresta e con una scusa li abbandonarono di nuovo. Pollicino non se ne preoccupò, era sicuro di ritrovare la strada con l’aiuto del grano che aveva disseminato per terra.

Ma questa volta andò male: gli uccelli, anch’essi affamati, avevano divorato tutti i chicchi, facendo Scomparire la traccia che avrebbe dovuto guidare i bambini fino a casa.

Senza scoraggiarsi, Pollicino si mise alla testa dei fratelli, e insieme cominciarono a vagare per la foresta, alla ricerca del sentiero giusto. Purtroppo, più camminavano più si smarrivano nel folto.

Venne la notte, cominciò a piovere, i lupi ululavano in lontananza, faceva un gran freddo, e i bambini piangevano disperati.

Pollicino si arrampicò su un albero altissimo, e vide in lontananza un lumicino. Dove era una luce, doveva esserci una casa, e dov’era una casa non potevano mancare cibo, fuoco, un letto per riposare.

Senza esitare Pollicino scese dall’albero e si mise alla testa dei fratelli, puntando verso quel lumicino lontano.
Cammina, cammina, arrivarono a una grande casa scura. Pollicino bussò alla porta, venne ad aprire una donna.

— Chi siete, bambini, che cosa volete?

— Ci siamo smarriti nella foresta. Per carità, signora, ci dia un boccone di pane e ci lasci dormire all’asciutto.
La donna li guardò, con gli occhi lucidi di lacrime.

— Poverini, siete capitati proprio male. Questa è la casa di mio marito, un Orco ghiottissimo di bambini. Se vi vede, vi mangerà tutti.

Pollicino che tremava come una foglia per il freddo e lo sfinimento, rispose:

— Se restiamo nella foresta, ci mangeranno di sicuro i lupi. Mangiati per mangiati, scegliamo l’Orco: forse, se gli raccontiamo la nostra storia, riusciremo a commuoverlo.

La moglie dell’Orco, che aveva il cuore tenero, si lasciò convincere: permise ai sette fratellini di entrare in casa, li fece asciugare accanto al fuoco e dette loro una buona cena.

Avevano appena ingoiato l’ultimo boccone, che si sentì bussare dei gran colpi alla porta: era l’Orco che rincasava!

Sua moglie nascose i bambini sotto la credenza, e corse ad aprire. L’Orco entrò, enorme, bruttissimo, portava in spalla le carcasse di tre cervi che aveva ucciso poco prima. Appena entrato, cominciò a fiutare a destra e a sinistra, insospettito.

Ucci ucci sento odor di cristianucci!

Ma no, e l’odore della carne dei cervi — disse sua moglie, tremando.

Ma l’Orco non si lasciava ingannare, conosceva troppo bene l’odore di carne umana.

Ucci ucci sento odor di cristianucci!

Si diresse spedito verso la credenza, e con le sue manone tirò fuori uno per uno i sette fratellini, più morti che vivi per la paura.

— Bene, benissimo. Ecco un ottimo pranzo per domani. E cominciò ad affilare un enorme coltello.

Aveva già afferrato per il collo il fratellino più grande, quando sua moglie intervenne.

Perché vuoi ammazzarli proprio stasera? Domani cucinerò i tre cervi, ce, n’è d’avanzo per pranzo e cena.

Hai ragione, moglie — borbottò l’Orco. — Visto che sono tanto magri, li farai ingrassare per qualche giorno, poi organizzeremo un gran banchetto e inviterò altri orchi amici miei.

La moglie dell’Orco sospirò di sollievo: per il momento i bambini erano salvi. Li mise a dormire nella stessa stanza in cui già riposavano le sette figlie dell’Orco, sette bambine bruttissime e crudeli come il padre, che portavano in testa una coroncina d’oro. In un gran letto le sette figlie dell’Orco, in un letto uguale, lì accanto, i sette fratellini.

Pollicino, che alla luce della candela aveva notato le coroncine d’oro delle figliole dell’Orco, e temendo che questi si pentisse di non averli uccisi quella sera stessa, tramò uno stratagemma: prese il suo berretto e quelli dei fratelli e li mise in testa alle figlie dell’Orco, dopo aver tolto loro le coroncine d’oro, che sistemò sui suoi capelli e su quelli dei fratelli.

L’Orco, intanto, che dormiva in un’altra stanza, si svegliò, pentito di aver rimandato all’indomani l’uccisione delle sue vittime.

Afferrò il coltellaccio e salì in camera delle figlie. Al buio, a tentoni, si avvicinò al letto dove dormivano i sette fratellini.

Pollicino, che batteva i denti per la paura, sentì la manaccia dell’orco toccargli la testa e la coroncine, poi un’esclamazione soffocata:

— Povero me, stavo per farla grossa. Per poco non sgozzavo le mie figliole!

Si avvicinò all’altro letto, tese la mano, tastò i berretti di lana ruvida e sghignazzò:

— Eccoli qui, quei monelli. Mano al coltello.

E, senza esitare, tagliò sette gole. Poi tornò in camera sua e riprese il sonno interrotto; un momento dopo russava così forte da far tremare le pareti di casa. Allora Pollicino svegliò i fratelli, raccontò loro l’accaduto e tutti insieme decisero di fuggire immediatamente.

Nel più profondo silenzio lasciarono l’abitazione dell’Orco e raggiunsero la foresta. Corsero per tutta la notte, senza neanche sapere da che parte si dirigevano.

La mattina seguente l’Orco si svegliò e per prima cosa salì nella camera per prendere le sue vittime e cucinarle.

Figurarsi come rimase quando si accorse che aveva ucciso le sue figliole e che i sette bambini erano scomparsi!

Cieco di rabbia infilò gli stivali magici che ad ogni passo facevano sette leghe, e si lanciò all’inseguimento.

Dopo un po’ aveva già trovato le tracce dei fuggiaschi, che ormai non erano molto lontano dalla capanna dei genitori. Pollicino lo vide da lontano e, senza perdersi di coraggio, fece nascondere i fratellini in una caverna vicina.

Intanto l’Orco era a pochi passi, ma cominciava a sentirsi stanco per tutta la strada fatta con gli stivali magici, e decise di schiacciare un sonnellino, proprio davanti all’entrata della grotta dove erano nascosti i sette fratellini.

Allora Pollicino ordinò ai bambini di correre a casa dai genitori e mettersi in salvo, poi si avvicinò all’Orco e pian piano gli sfilò gli stivali delle sette leghe.

Erano stivali immensi, fatti su misura per l’Orco, ma erano anche stivali fatati e così, non appena Pollicino li ebbe calzati, cominciarono a rimpicciolire finché non divennero proprio della sua misura.

— E ora, con questi stivali magici, andrò in cerca di fortuna, in modo che nessuno di noi soffra più fame e miseria — disse Pollicino.

E si mise in cammino. Sette leghe a ogni passo, ben presto arrivò molto lontano, in un regno dove si combatteva una terribile guerra, e seppe che il re era in gran pensiero per l’esito della battaglia, e che avrebbe pagato chissà quanto per avere notizie.

Pollicino si presentò a palazzo reale e disse che in un’ora o anche meno avrebbe raggiunto il lontano campo di battaglia e portato notizie. In cambio chiedeva diecimila scudi d’oro.

Il re acconsentì immediatamente, e un’ora più tardi, per merito degli stivali delle sette leghe, Pollicino era di ritorno a corte con ottime notizie sull’esito della battaglia. Il re, soddisfatto, gli pagò subito la somma promessa e inoltre lo ricoprì di regali.

Il giorno seguente Pollicino, con i magici stivali, raggiunse in un batter d’occhio la capanna dei genitori, accolto con gran gioia da tutti.

E la gioia aumentò ancora quando tirò fuori da un sacco un gran mucchio di monete d’oro, tante da non contarle neanche. E da quel giorno vissero tutti felici, nell’abbondanza.


Versione dei fratelli Grimm

C’era una volta un povero contadino che una sera se ne stava seduto accanto al focolare ad attizzare il fuoco, mentre sua moglie filava.

A un certo punto disse: -Com’è triste non aver bambini! E’ così silenziosa la nostra casa, mentre dagli altri c’è tanto baccano e tanta allegria!-.

-Sì- rispose la donna sospirando -fosse anche uno solo e pure piccolissimo, non più grande di un pollice, sarei già contenta, e gli vorremmo un gran bene.- Ora avvenne che la donna incominciò a star male, e dopo sette mesi diede alla luce un bambino, perfettamente formato, ma non più grande di un pollice.

Allora essi dissero -E’ proprio come lo abbiamo desiderato, e sarà il nostro caro figlioletto- e, dalla statura, lo chiamarono Pollicino. Non gli lesinarono il cibo, tuttavia il bimbo non crebbe e rimase com’era al momento della nascita.

E aveva uno sguardo intelligente e si mostrò ben presto un ometto attento e giudizioso, che riusciva in tutto quello che intraprendeva.

Un giorno il contadino si preparava ad andare nel bosco a tagliar legna, e mormorò: -Se ci fosse qualcuno che venisse a prendermi con il carro!-.

-Oh babbo- esclamò Pollicino -lo farò io; il carro sarà nel bosco a tempo debito.-

L’uomo si mise a ridere e disse: -Com’è possibile? Sei troppo piccolo per guidare un cavallo con le redini-.

-Non fa niente, babbo, se la mamma vuole attaccarlo, mi metterò nell’orecchio del cavallo e gli suggerirò dove deve andare.-

-Be’- rispose il contadino -proviamo, per una volta.- Quando giunse l’ora, la madre attaccò e mise Pollicino nell’orecchio del cavallo, e il piccolo gli gridava dove doveva andare: -Uh e oh! a destra e a sinistra!-.

Tutto andò regolarmente come se ci fosse stato un cocchiere, e il carro se ne andava dritto verso il bosco. Ora avvenne che a una svolta, mentre il piccino gridava: -A sinistra!- passarono di lì due forestieri.

-Dio mio!- disse l’uno -che è mai questo? C’è un carro e un carrettiere invisibile guida il cavallo!-

-C’è qualcosa che non va- disse l’altro -seguiamolo e vediamo dove si ferma.- Intanto il carro andò dritto nel bosco dove spaccavano la legna.

Quando Pollicino scorse suo padre, gridò: -Hai visto, babbo, eccomi qui con il carro, adesso mettimi giù-.

Il contadino afferrò il cavallo con la sinistra, e con la destra tirò giù dall’orecchio il suo figlioletto, che tutto allegro si mise a sedere su di un fuscello di paglia.

Quando due forestieri videro Pollicino, ammutolirono dallo stupore L’uno prese l’altro in disparte e disse: -Ascolta, quell’omuncolo potrebbe fare la nostra fortuna, se lo faremo vedere a pagamento in una grande città: compriamolo!-.

Si avvicinarono al contadino e dissero: -Vendeteci l’omino, lo tratteremo bene!-.

-No- rispose il padre -non venderei la radice del mio cuore per tutto l’oro del mondo.-

Ma Pollicino, udito l’affare, gli si arrampicò su per le pieghe del vestito, si mise sulla sua spalla e gli sussurrò all’orecchio: -Babbo, vendimi pure, tanto ritornerò da te-.

Allora il padre lo diede a quei due per una bella moneta d’oro. -Dove vuoi metterti?- gli chiesero.

-Ah, posatemi sulla tesa del cappello; là potrò andare su e giù come in una galleria, e ammirerò il paesaggio.-

Lo accontentarono e quando Pollicino ebbe preso congedo dal padre, se lo portarono via. Camminarono fino all’imbrunire, allora il piccino disse: -Tiratemi giù, ne ho bisogno-.

-Rimani pure li- rispose l’uomo che lo portava sul suo cappello -non m’importa; anche gli uccelli lasciano cadere qualcosa ogni tanto.-

-No- disse Pollicino -so quel che si conviene; tiratemi giù, presto!-

L’uomo si tolse il cappello, e mise il piccino in un campo lungo la strada; e quello si addentrò un poco fra le zolle qua e là; poi d’un tratto s’infilò in una tana di sorcio, che aveva cercato apposta.

-Buona sera, signori, andatevene pure senza di me!- gridò loro. Quelli corsero e frugarono la tana con i bastoni, ma era fatica sprecata: Pollicino strisciava sempre più giù, e siccome presto fu notte fonda, dovettero andarsene pieni di rabbia e con la borsa vuota.

Quando Pollicino si accorse che se ne erano andati, venne fuori dalla galleria sotterranea. -E’ pericoloso camminare per i campi al buio- disse -è così facile rompersi l’osso del collo!- Per fortuna s’imbatté‚ in un guscio di lumaca: “Sia lode a Dio!” pensò. “Qui posso pernottare al sicuro!” e vi entrò.

Poco dopo, mentre stava per addormentarsi, sentì passare due uomini, uno dei quali diceva: -Come faremo a rubare l’oro e l’argento del ricco parroco?-.

-Potrei dirtelo io- gridò subito Pollicino.

-Cos’è stato?- esclamò uno dei ladri, spaventato. -Ho sentito qualcuno parlare.-

Si fermarono in ascolto e Pollicino tornò a dire: -Prendetemi con voi, vi aiuterò-.

-Dove sei?- -Cercate per terra e ascoltate da dove viene la voce- rispose.

Finalmente i ladri lo trovarono e lo sollevarono. -Ma come vuoi aiutarci tu, piccolo vermiciattolo!- dissero.

-Guardate- egli rispose -entro dall’inferriata nella camera del parroco e vi sporgo fuori quello che volete.-

-Be’- dissero quelli -vedremo cosa sei capace di fare.-

Quando arrivarono alla parrocchia, Pollicino si introdusse nella camera, ma gridò subito a squarciagola: -Volete tutto quello che c’è qui?-.

I ladri dissero, spaventati: -Parla piano, che nessuno ti senta!-.

Ma Pollicino finse di non aver capito e gridò di nuovo: -Cosa volete? Volete tutto quel che c’è?-.

L’udì la cuoca che dormiva nella stanza accanto, e si rizzò a sedere sul letto in ascolto.

Ma per lo spavento i ladri erano corsi dietro un pezzo; finalmente ripresero coraggio e pensarono: “Quel piccoletto vuole prendersi gioco di noi.”

Tornarono e gli sussurrarono: -Adesso fa’ sul serio e dacci qualcosa-.

E di nuovo Pollicino gridò più forte che poté: -Vi darò tutto; porgete soltanto le mani!-.

La donna che stava ad ascoltare l’udì distintamente, saltò giù dal letto ed entrò inciampando nella stanza. I ladri scapparono precipitosamente, come se avessero il fuoco alle calcagne; ma la donna, non riuscendo a vedere nulla, andò ad accendere un lume.

Quando ella tornò, Pollicino, non visto, si cacciò nel fienile; e la donna, dopo aver cercato inutilmente in tutti gli angoli, si rimise a letto, credendo di aver sognato a occhi aperti.

Pollicino si era arrampicato fra gli steli del fieno, dove aveva trovato un bel posto per dormire: voleva riposare fino a giorno per poi fare ritorno dai genitori. Ma lo aspettavano ben altre esperienze! Sì, non mancano tribolazioni e affanni a questo mondo!

All’alba la serva si alzò per dar da mangiare alle bestie. Per prima cosa andò nel fienile, dove prese una manciata di fieno, proprio quello in cui dormiva il povero Pollicino. Ma egli dormiva così sodo che non se ne accorse e si svegliò soltanto in bocca alla mucca, che l’aveva preso con il fieno.

-Ah, Dio mio!- gridò. -Come ho fatto a cadere nella mangiatoia?- Ma capì ben presto dove si trovava. Allora cercò di fare attenzione in modo da non finire fra i denti ed essere stritolato; poi dovette lasciarsi scivolare nello stomaco.

-Nello stanzino hanno dimenticato le finestre!- disse -e non ci entra il sole, n‚ si può avere un lume!- L’abitazione non gli garbava affatto, e quel che era peggio, dalla porta continuava a entrare altro fieno e lo spazio si faceva più stretto.

Alla fine, impaurito, gridò con quanto fiato aveva in gola: -Non portatemi più fieno! Non portatemi più fieno!-. La serva stava mungendo la mucca proprio in quel momento, e quando sentì parlare senza vedere nessuno, e riconobbe la stessa voce che aveva udito durante la notte, si spaventò tanto che sdrucciolò dallo sgabello e rovesciò il latte.

Corse dal padrone in tutta fretta, gridando: -Dio mio, reverendo, la mucca ha parlato!-.

-Sei impazzita- le rispose il parroco, tuttavia si recò di persona nella stalla per vedere cosa vi fosse.

Ma ci aveva appena messo piede, che Pollicino si mise a gridare di nuovo: -Non portatemi più fieno! Non portatemi più fieno!-.

Allora anche il parroco si spaventò e, pensando che si trattasse di uno spirito maligno, fece uccidere la mucca. Così fu macellata, ma lo stomaco dove si trovava Pollicino fu gettato nel letamaio.

Pollicino cercò di tirarsi fuori con gran fatica; finalmente riuscì a farsi strada, ma proprio mentre stava per metter fuori la testa sopraggiunse un’altra disgrazia. Arrivò di corsa un lupo affamato che ingoiò tutto lo stomaco in un boccone.

Ma Pollicino non si perse d’animo. “Forse il lupo mi darà retta” pensò e, dalla pancia, gli gridò: -Caro lupo, io so dove puoi trovare un cibo squisito-.

-Dove?- chiese il lupo -In quella casa così e così, devi introdurti nella cantina e troverai focaccia, lardo e salsiccia a volontà.- E gli descrisse minutamente la casa di suo padre.

Il lupo non se lo fece dire due volte: di notte, passando dalla cantina, entrò nella dispensa e mangiò a sazietà. Quando fu sazio volle andarsene, ma era diventato così grasso che non poté‚ più uscire per la stessa via.

Pollicino aveva contato proprio su questo e si mise a fare un gran baccano nella pancia del lupo, strepitando e strillando più forte che poteva.

-Vuoi startene zitto?- disse il lupo, -svegli i padroni.-

-Ma come!- rispose il piccino -tu hai mangiato a crepapelle, adesso voglio divertirmi un po’ anch’io!- E ricominciò daccapo a gridare con tutte le sue forze.

Finalmente suo padre e sua madre si svegliarono, corsero alla dispensa e guardarono dalla fessura. Quando videro che c’era dentro un lupo, si spaventarono, e il marito corse a prendere l’ascia e la moglie la falce.

-Stammi dietro- disse l’uomo entrando nella stanza -se non lo uccido al primo colpo, dagli addosso e fallo a pezzi.-

Pollicino udì la voce del padre e gridò: -Caro babbo, sono qui, sono nella pancia del lupo!-.

-Dio sia lodato! abbiamo ritrovato il nostro caro bambino!- rispose l’uomo, pieno di gioia. E disse alla donna di mettere via la falce per non fargli del male. Poi diede un gran colpo sulla testa del lupo, facendolo stramazzare a terra morto; e, presi coltello e forbici, gli tagliarono la pancia e tirarono fuori il piccino.

-Ah- disse il padre -come siamo stati in pena per te!-

-Sì, babbo, ho girato il mondo in lungo e in largo, grazie a Dio respiro di nuovo aria buona!-

-Ma dove sei stato?-

-Ah, babbo, sono stato in una tana di sorcio, nella pancia di una mucca e nel ventre di un lupo, adesso rimango con voi.-

-E noi non ti venderemo più per tutto l’oro del mondo.-

Allora abbracciarono e baciarono il loro Pollicino, gli diedero da bere e da mangiare e gli fecero fare dei vestiti nuovi perché‚ i suoi si erano sciupati nel viaggio.

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