La bella e la bestia

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La bella e la bestia

La Bella e La Bestia è una famosa fiaba europea, numerosi sono state le varianti. La storia de La bella e la bestia ha circolato per secoli in tutta Europa, sia in forma orale che scritta.

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La bella e la bestia DA LEGGERE

Versione di Beaumont

C’era una volta una città che non assomigliava alle altre. Le sue case erano ornate di terrazze e di torri che parevano cresciute senza un ordine prestabilito.

Molte avevano fregi in marmo, portoni scolpiti, finestre graziose che si aprivano su muri di umili mattoni e sembravano il segno di una ricchezza improvvisa.

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Infatti in quella città il popolo ogni tanto arricchiva improvvisamente. Era un popolo composto quasi esclusivamente di mercanti, che commerciavano attivamente con i paesi d’oltremare.

Dai porti vicini partivano navi cariche di mercanzie di ogni genere e allora tutti, le donne specialmente, si accalcavano nella piazza a salutare i marinai, i mariti, i fratelli, i figli che se ne andavano tanto lontano.

Poi incominciava la lunga attesa da parte delle donne che passavano il tempo filanda, tessendo, ricamando, e preparando ai loro cari un lieto ritorno.

E quando le navi gettavano l’ancora nei porti, e i volti allegri dei marinai e dei mercanti annunciavano che tanto il viaggio quando gli affari erano andati a gonfie vele, vecchi, donne e ragazzini si avviavano festosamente incontro ai naviganti, cantando cori, intrecciavano danze, e la gioia era generale.

Poi ogni famiglia cercava, con i guadagni fatti, di onorare e abbellire la propria casa, innalzando piccole torri merlate, aprendo terrazze, sostituendo gli umili portoni di legno con altri graziosamente scolpiti, affinché di quella ricchezza potessero godere i figli e anche i figli dei figli.

Il mercante più ricco e più rispettato era un vecchio gentiluomo vedovo, padre di tre figli e di tre figlie. I figli maschi si erano dedicati al commercio, e avevano dimostrato di possedere intelligenza, iniziativa e onestà; le tre figlie erano bellissime, e le due maggiori erano molto vanitose.

Queste due ragazze, istruite da ottimi maestri, avevano imparato a cantare, a danzare, a inchinarsi con grazia, a sostenere spiritosamente una conversazione; avevano buon gusto nello scegliere abiti e gioielli, ma tutti i loro meriti finivano lì.

La più giovane, invece, sebbene più bella ancora delle sorelle, non soltanto danzava e cantava come le altre e sapeva conversare meglio di loro, ma sonava il clavicembalo, ricamava alla perfezione, aveva letto centinaia di libri arricchendo la mente di infinite cognizioni, e spesso non disdegnava di scendere in cucina per imparare dalla cuoca a cucinare saporiti manicaretti.

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Nei momenti di libertà, poi, si dedicava a opere buone, visitando ammalati e tenendo compagnia ai bambini e ai vecchi rimasti soli mentre gli uomini erano sul mare.

Quando era piccola, tutti l’avevano soprannominata “La bella bambina”, per i suoi occhi luminosi, i riccioli bruni e il dolce sorriso; e quando crebbe la chiamarono semplicemente “La Bella”.

Le due sorelle maggiori non ascoltavano volentieri quell’ appellativo rivolto alla più giovane, e quando lo udivano diventavano rosse per la stizza.

Avrebbero dato chissà che cosa perché quella parola fosse dedicata a loro, e cercavano di guadagnarsela affettando arie aristocratiche e agghindandosi come meglio potevano.

Avevano le stanze sempre piene di vestiti e di tagli di stoffa; il gioielliere lavorava per loro di continuo, ed esse frequentavano esclusivamente i balli dell’alta società e le serate di gala a teatro.

Bella, invece, partecipava a queste riunioni e danzava graziosamente assieme agli altri, mettendo le sue bianche manine in quelle callose degli operai durante il girotondo.

Perciò tutti le volevano bene e molti giovani avrebbero voluto sposarla, ma Bella rifiutava con garbo, ringraziando e dicendo che si sentiva troppo giovane per maritarsi, tanto più che desiderava rimanere per qualche anno ancora con il suo babbo.

Anche le sorelle maggiori erano attorniate da pretendenti essendo belle e ricche; ma li rifiutavano con fare arrogante.

“Non potremo mai abbassarci a sposare mercanti come voi” dicevano, “e ci fa meraviglia, anzi, che abbiate osato tanto. Sposeremo solamente un duca, o almeno un conte.”

Volgevano altezzosamente le spalle e andavano a provare davanti allo specchio gli inchini cerimoniosi che avrebbero fatto quando il duca, o il conte, fossero arrivati. Ma una sera arrivò, invece, una lettera che il mercante lesse attorniato dai suoi figli.

Desideroso di arricchire sempre di più, per lasciare una buona dote alle figlie e un discreto patrimonio ai figli, egli aveva investito tutte la sue ricchezze nell’acquisto di merci rare e preziose che i marinai della sua flotta dovevano procurargli in paesi molto lontani.

La flotta doveva arrivare in porto già da tempo, ma ancora non se ne aveva notizia, e il mercante aspettava con ansia di vederla da un giorno all’altro o di ricevere qualche messaggio.

E il messaggio finalmente arrivò; ma era di un capitano suo amico, il quale gli diceva che la flotta era scomparsa e che nessuno l’aveva vista più, sul mare.

Ormai era inutile aspettarla ancora, perché era passato troppo tempo da quando avevano levato le ancore. Il mercante lesse fino in fondo, poi guardò i suoi figlioli, angosciato.

Aveva impegnato fino all’ultimo centesimo in quell’impresa, e la scomparsa della flotta significava per lui anche la scomparsa di tutti i suoi beni. Non gli rimaneva più nulla.

Avrebbe venduto il palazzo e tutte le suppellettili per pagare i dediti contratti per armare la flotta; i figli dovevano abbandonare il mestiere di mercante, che richiede tanto denaro, almeno per cominciare; e le figlie avrebbero dovuto rinunciare agli abiti lussuosi e ai gioielli preziosi per vestirsi come le donne del popolo.

Tutti, poi, si sarebbero ritirati in campagna per godere dell’ultimo bene rimasto, che però avrebbe consentito a tutti di sfamarsi: una modesta fattoria circondata da un po’ di terra da coltivare.

“Vi chiedo perdono, figli miei” disse il mercante con le lacrime agli occhi. “Questa è l’unica risorsa che posso offrirvi. In campagna riusciremo a vivere, perché abbiamo buone braccia per lavorare la terra.

Le ragazze si occuperanno dell’orto e del pollaio, e, quando occorre, anche della stalla e del porcile. Inoltre faremo economia, perché per lavorare nei campi non occorrono abiti di lusso.”

“Va bene, babbo” risposero i figli. Dispiaceva loro moltissimo abbandonare la mercatura in cui già avevano incominciato ad aprirsi una buona strada; ma erano uomini e si rendevano conto delle cose.

Il pane onestamente guadagnato è sempre buono, pensavano, anche se guadagnato con la zappa. Bella accarezzò dolcemente la mano di suo padre e lo guardò con un coraggioso sorriso. La campagna, infine, significava verde, fiori, uccellini, aria buona, buona salute.

Ma le sorelle, udendo nominare stalla e pollaio, proruppero in acuti strilli: “Mai, mai, verremo conte in quella catapecchia fuori dal mondo” gridarono, “vuoi condurci là per farci dispetto, ma noi non acconsentiremo. Fosse almeno una villa con fontane e statue! Ma è una rozza casaccia dove bisogna portare gli zoccoli, indossare un brutto grembiule e, per di più, zappare la terra! Rimarremo qui, in città, dove abbiamo sempre vissuto.”

“Figlie mie,” esortò il padre, “vi prego di ragionare. Non potrete più abitare in questo palazzo che sarà venduto; e dovrò vendere anche vestiti e gioielli. Siamo diventati poveri, e non ci rimane che quella casa. Non vi resta altro che rassegnarvi a questa nuova condizione!”

“Ebbene, non importa” affermò la figlia maggiore piangendo di stizza e aggiunse: “Rimarremo in città a ogni costo. A costo persino di sposare qualcuno dei nostri pretendenti più ricchi.” “Si, si faremo così!” rincarò la seconda. “Ma in campagna mai, per nessuna ragione al mondo!”

E invece furono costrette a partire anch’esse per la campagna, perché i ricchi pretendenti si erano tutti dileguati e non volevano più saperne di loro, ora che non portavano in dote che il loro cattivo carattere.

Tuttavia molti giovani fecero sapere a Bella che sarebbero stati felici di sposarla anche se povera, perché le sue qualità valevano più di una ricchezza; ma Bella col suo garbo consueto fece sapere che non avrebbe mai abbandonato suo padre in un momento tanto triste, e che si disponeva a partire anche lei. Partiva con coraggio, pronta ad affrontare la nuova vita.

Quando arrivò in campagna Bella spalancò tutte le finestre affinché la casa si riempisse di sole, di profumi e di gorgheggi di uccellini, e apparisse meno triste alle due sorelle che si erano gettate gemendo sui loro letti di ferro.

Ma le due ragazze non si commossero, e rimasero a piangere fino all’ora di cena, quando scesero a mangiare i semplici e buoni cibi che Bella aveva preparato con i prodotti dell’orto e del frutteto. Per fortuna sapeva cucinare, e da quel giorno fu compito suo badare ai fornelli, alla stalla, all’orto al pollaio.

Ella lavorava allegramente cantando e non sembrava neppure avvertire la fatica. Le sorelle, invece, che erano molto pigre, preferivano stare a letto fino a mattino avanzato; più tardi scendevano a far colazione e poi passeggiavano malinconicamente nel giardinetto e non facevano che rimpiangere il tempo passato.

Bella si alzava all’alba, riordinava la casa, innaffiava l’orto, curava le galline, i porcellini, i vitellini, lavava i panni al ruscello, e soltanto nei momenti di libertà sonava il cembalo o leggeva qualche libro.

Poi, quando il padre e i fratelli ritornavano stanchi dai campi, ella aveva già preparato una buona cena in una cucina accogliente e pulita, ornata di stampi di rame scintillante; e pian piano la forza d’animo di Bella e la sua serenità infusero coraggio a tutta la famiglia, fuorché alle due sorelle maggiori, occupate a rimuginare di continuo la loro amarezza.

Una sera giunse un secondo messaggio. Tutta la famiglia allora, si riunì accanto alla lucerna, e una viva ansia era dipinta sui volti dei suoi componenti. Il messaggio annunciava che proprio quella mattina una nave del mercante, carica di mercanzie, era finalmente giunta in porto.

A quella notizia le sorelle non seppero trattenere l’entusiasmo. “Evviva! Siamo ridiventati ricchi!” esclamò la maggiore, ”finalmente potremo tornare di nuovo in città!” “Bisogna pensare subito ai vestiti!” rincarò la seconda, “non mi sono rimasti che stracci, da mettermi addosso.” “Calma, calma, figlie mie!” esortò il mercante, “una nave è soltanto una nave, e non può rappresentare la ricchezza passata. Inoltre dovrò pagare i marinai, e mi è rimasto anche qualche debito. Aspettate il mio ritorno e vedremo.” “Parli così per farci dispetto, come al solito” rimbecco la maggiore con acrimonia, “al tuo ritorno portami un abito di velluto azzurro guarnito di merletti d’argento.” “E a me un paio di scarpine di raso” rincarò la seconda, “ho bisogno anche di un ventaglio d’avorio, di orecchini di brillanti, di collane di smeraldo, di braccialetti, di un diadema … e dieci braccia di seta della Cina per confezionarmi un po’ di biancheria … e un paio di guanti lunghi fino al gomito.”

Le due ragazze continuarono per un pezzo e il mercante le ascoltava sconsolato. Anche se non avesse avuto debiti da pagare, il carico della nave sarebbe bastato appena a comperare la metà di ciò che le ragazze domandavano.

Poi si volse dolcemente a Bella. “E tu non domandi niente, figlia mia?” le chiese sollecito. Bella ci pensò. Non desiderava proprio niente, e si sentiva felice così com’era; tuttavia un piccolo regalo le avrebbe fatto piacere, perciò disse: “Vorrei un ramoscello di rose: nell’orto non ce ne sono, ma io potrei piantarlo, e forse attecchirebbe.”

Il mercante sorrise, poi andò subito a letto per alzarsi per tempo l’indomani. Infatti all’alba i figli sellarono il cavallo ed egli partì. Era pieno di speranze, ma giunto in città seppe che la nave era arrivata, ma egli purtroppo non avrebbe potuto godere nemmeno una briciola di quelle ricchezze, perché i marinai aspettavano la paga da molti mesi e la nave, sconquassata da un fortunale, doveva essere riparata da cima a fondo; inoltre si erano già presentati parecchi creditori a reclamare il loro avere.

Quando ebbe finito di pagare tutti, il pover’uomo si trovò senza nemmeno un soldo in tasca. Allora si affrettò verso casa, desideroso di riabbracciare i suoi figlioli. Ormai si era affezionato alla campagna, e quasi gli dispiaceva di quello spiraglio di ricchezza inattesa che si era aperto nella sua vita, per procurargli nuove delusioni; era felice soltanto in mezzo ai campi, quando sentiva i suoi figli cantare vicino a sé, anche se lo affliggeva la disperazione palese delle due maggiori che non sapevano rassegnarsi a quella nuova vita.

Spronò il cavallo, e verso sera giunse nei paraggi di casa sua, ma doveva prima attraversare un bosco, sotto la cui cupola di foglie faceva tanto buio che egli si smarrì.

Era molto freddo. La neve cadeva di traverso spinta dalla bufera, e a poco a poco i rami si coprivano di bianco, mentre gli uccellini svolazzavano affamati e impauriti proprio come lui.

Aveva paura, perché sentiva i lupi ululare e il vento era così furioso che lo fece cadere di sella due volte, ma mentre, sfinito, stava per abbandonarsi allo scoraggiamento, vide brillare un lumicino fra gli alberi. Rincuorato, spinse il cavallo in quella direzione, e poco dopo giunse con grande sorpresa davanti a un palazzo stupendo.

“Mio dio, ti ringrazio!” esclamò. “Mai ho veduto un palazzo così bello. Chiederò ospitalità, e passerò la notte al riparo.” Il palazzo aveva scalinate di marno e ampi cortili, ma il mercante non riuscì a vedere né servi, né sentinelle.

Stupito, avanzò un po’ timidamente, e superato un portone di legno intarsiato, si trovò in un vasto salone pieno di mobili ricchi e preziosi. Al di là c’era una terrazza di marno bianco che digradava verso un meraviglioso giardino pieno dei fiori di un’eterna primavera.

Prati di un verde smeraldino, ruscelli d’argento, piante fiorite, cespugli di rose, fiancheggiavano un maestoso viale formato da alberi centenari. Il mercante incominciò a percorrere il viale come trasognato, ma, guardando le rose, si ricordò di Bella.

La sua diletta figliola gli aveva chiesto un ramoscello di rose: e qui, di rose ce n’erano tante! Stacco con cura un rametto ornato di boccioli, ma in quell’istante udì un grido spaventoso, i cespugli si aprirono e davanti a lui apparve un essere mostruoso, che aveva un po’ dell’uomo e un po’ dell’animale e lo fissava con occhi fiammeggianti.

“Ingrato!” gridò, “io ti ho salvato la vita, e tu, per ricompensa, mi rubi le rose, i fiori che più mi sono cari al mondo. Meriteresti un castigo. Raccomanda l’anima a Dio perché tra poco morirai.” Il mercante si gettò in ginocchio terrorizzato: “Perdonatemi, signore … anche una mia figliola ama tanto le rose che me ne ha chiesta una, e io non sapevo dove trovarla. Perciò …” incominciò a balbettare, non riuscendo a trovare una giustificazione, ma il mostro continuò con voce terribile e cavernosa: “Non chiamarmi signore. Guardami: ti sembro forse un signore? Io sono soltanto una Bestia, e il mio nome è proprio la Bestia; ti farò grazia della vita soltanto a un patto: che tua figlia venga qui, e si sacrifichi al tuo posto. Ma se non verrà, dovrai ritornare tu, fra tre mesi.”

Il mercante non pensò neppure per un attimo di mandare la figliola a morire in vece sua, ma si sentì un po’ consolato, perché la Bestia gli lasciava il tempo di riabbracciare i suoi figlioli. “Vi ringrazio” disse con fervore, “fra tre mesi sarò qui.” La Bestia lo guardò per un momento, poi disse con voce un po’ rabbonita: “Non voglio che tu torni a casa a mani vuote. Nella sala in cui sei entrato troverai un grande cofano. Mettici dentro ciò che vuoi. Penserò io a mandarlo.”

Detto questo la Bestia si ritirò e il mercante rimase solo. Ritornò malinconicamente nella grande sala e vide davvero il cofano, che non c’era prima, e, intorno, mucchi di monete e di gioielli. Quasi meccanicamente li raccolse e riempì il cofano, pensando che non avrebbe mai goduto di quelle ricchezze, ma che almeno ne avrebbero goduto i suoi figlioli; e questo pensiero lo confortò.

Andò a prendere il cavallo e salì in sella pensando alla sorte che lo aspettava, dopo i tre mesi. Il cavallo trovò da solo la via di casa, e il suo nitrito, quando giunse, fece accorrere fuori i figlioli. Essi lo aiutarono a scendere di sella e Bella accese il fuoco nel cammino, mentre le figlie maggiori accorrevano per ritirare i loro vestiti.

Vedendoli tutti riuniti intorno a sé, il mercante incominciò a piangere, porse il ramoscello a Bella e disse: “Eccoti le rose che desideravi. Costeranno ben care al tuo povero padre.”

A quelle parole i figli lo tempestarono di domande, e finalmente lo sventurato si decise a raccontare ogni cosa. Le figlie maggiori si scagliarono con violenza contro Bella. “E’ colpa tua, se rimarremo orfane! Hai voluto fare la santarellina, chiedendo una cosa piccola piccola, e non un vestito o un gioiello come noi! Eccone le conseguenze! E non ti disperi! Non piangi nemmeno, tu che sei la causa della rovina di nostro padre! “Perché dovrei piangere?” chiese Bella con calma. “Dato che la Bestia si accontenta di me, andrò io al castello, naturalmente.”

In cuor suo era spaventatissima: si sentiva come un uccellino inseguito da un gufo. Ma pensava che era giusto che fosse così. Lei aveva chiesto quel dono assurdo; lei doveva pagare. E la gioia di sapere il buon babbo vivo, l’avrebbe consolata da ogni male.

“No, sorellina cara, no!” gridarono i fratelli, “Noi non permetteremo mai che tu corra incontro alla morte, e troveremo il modo di uccidere la Bestia. “Voi non correrete rischi per colpa mia” replicò Bella, “non saprei sopravvivere, se vi capitasse una disgrazia.

“Quella Bestia è invincibile” singhiozzò il padre. “Non v’è altro rimedio se non la mia partenza, fra tre mesi. Io sono vecchio: ormai mi rimane così poco tempo da vivere che non vale la pena di rimpiangerlo.

“No, caro babbo”, disse ancora Bella con la solita fermezza. “Io sono giovane, ma non amo la vita a tal punto da lasciarti morire al posto mio. Senza contare che, perduto te, morirei di dolore anche perché mi sentirei colpevole della tua morte.

Continuarono a lungo a discutere, e finalmente il mercante si rassegnò a partire per il castello assieme a Bella. Poi, strada facendo, avrebbero deciso il da farsi. Udito questo, le sorelle nascosero a stento la loro gioia.

Finalmente sarebbe sparita Bella, colei che le aveva fatte sempre sfigurare! Senza quel confronto, sarebbero apparse meno sciocherelle e vane! Andarono a letto soddisfatte, e il padre, quando entrò in camera sua, ebbe una sorpresa: accanto al letto c’era il cofano pieno di monete e di gioielli.

Era la ricchezza di nuovo! Ma che cosa poteva importare ormai! Bella, avvertita, pregò il padre di adoperare quel denaro per fare la dote alle sorelle, affinché potessero sposare due giovani gentiluomini che le avrebbero chieste in moglie, se non fossero state così povere, poi andò a letto anche lei e sognò una bellissima signora, con l’abito azzurro tempestato di stelle, che le diceva: “La tua bontà e il tuo coraggio meritano un premio. Spera sempre e vedrai che le tue sofferenze avranno fine.”

Quel sogno confortò un poco Bella e suo padre, che tuttavia piansero amaramente quando dovettero lasciare la loro casa e inoltrarsi nel fitto del bosco dove, in lontananza, brillava tenue il lumicino …

Il castello era sfarzosamente illuminato, come se aspettasse l’arrivo di un ospite di riguardo, ma nei cortili e nel salone non c’era anima viva. Il cavallo entrò da solo nella scuderia, e Bella e suo padre trovarono, in una sala, una tavola imbandita con cibi prelibati, e un bel fuoco nel camino.

”La Bestia vuole ingrassarmi, prima di mangiarmi” pensò la ragazza; ma nascose il suo terrore ed esortò il padre a prendere un po’ di cibo. Anzi, anche lei simulò di mangiare con buon appetito. Avevano appena terminato che udirono un gran rumore nelle stanze interne e la Bestia entrò.

Sebbene preparata, Bella sentì un tuffo al cuore. Quell’essere era veramente orribile, anche se parlava con voce pacata e cortese. Egli guardò Bella a lungo, poi domandò: “Sei venuta di tua spontanea volontà, oppure ti hanno obbligata? “Sono io che ho voluto venire!” affermò Bella, “ho procurato tanti guai a mio padre chiedendogli una rosa, ed è giusto che sia io a pagare. “Sei onesta e generosa” commentò il mostro, e rivolgendosi al mercante aggiunse: “Tu puoi andartene domattina: addio.” Poi si ritirò, e i due, rimasti soli, cercarono di farsi coraggio a vicenda. “La Bestia non è cattiva: vedi che non mi ha mangiata?” disse Bella; ma in cuor suo pensò che forse l’avrebbe fatto la sera dopo.

Tuttavia, poiché si era fatto tardi, andarono a letto in due eleganti camere, e contrariamente alla loro aspettativa si addormentarono subito. Al mattino venne il momento di separarsi. Padre e figlia si abbracciarono piansero, quindi il mercante si allontanò e Bella rimase a guardarlo fin che fu scomparso.

Rientrata nel castello ebbe un momento di disperazione, ma cercò di rinfrancarsi pensando: “Ho soltanto un giorno di vita, perché questa sera il mostro mi mangerà. Voglio godere visitando questo bel castello e questo bel giardino”.

Il giardino era veramente uno splendore, pieno di rose dal profumo che stordiva, e il castello traboccava di cose magnifiche e preziose. Bella non si stancava di ammirare, ma si fermò sbigottita davanti a una porta su cui era scritto ‘Appartamento di Bella‘.

Aperse la porta ed entrò; vide sale e salotti arredati con ogni ricchezza e comodità. “Non capisco il perché di tante premure, dato che tra poco la Bestia mi mangerà” pensò; ma subito si distrasse vedendo un clavicembalo e una biblioteca piena di libri.

I libri erano sempre stati i suoi migliori amici, e corse a prenderli e a sfogliarli. Sul frontespizio del primo c’era scritto: “Desidera e comanda, qui tu sei la regina.” “Sarebbe troppo bello!” pensò incredula la ragazza e disse in cuor suo, “Desidero vedere mio padre!”.

Subito un largo specchio appeso al muro si appannò lievemente, poi si schiarì, e Bella vide delinearsi nel cristallo la cucina di casa sua. C’erano le sorelle che chiacchieravano allegramente, come se il pensiero di lei e del padre non le sfiorasse nemmeno.

Poi ecco sopraggiungere il padre, disfatto dal dolore; sedette tristemente presso il camino, mentre le ragazze lo abbracciavano simulando le lacrime. Quindi l’immagine svanì e Bella si sentì piena di tristezza; tuttavia mandò un pensiero riconoscente al mostro che aveva avuto per lei tanta cortesia.

Più tardi tornò nella sala da pranzo e vide la tavola nuovamente imbandita. Era la prima volta che pranzava sola, ma non soffrì di malinconia, perché una musica invisibile le fece compagnia per tutto il tempo. “La Bestia non vuole proprio che mi annoi” pensò, “quando verrà a trovarmi lo ringrazierò”.

Trascorse il pomeriggio sonando il cembalo, leggendo e passeggiando; verso le nove sedette di nuovo a tavola. Aveva appena spiegato il tovagliolo, che udì il solito forte rumore nelle stanze interne, e poco dopo la Bestia apparve. La fanciulla fu agghiacciata di terrore, ma seppe dominarsi e salutò cortesemente.

Il mostro le chiese con molta gentilezza: “Permettimi che mi segga e rimanga qui con te, mentre ceni?” Perché mi chiedi questo permesso? Sei tu il padrone, qui al castello” rispose Bella. La Bestia scosse la testa: “No. Qui sei tu sola la padrona, e se preferisci non vedermi io mi allontanerò subito.” Bella trovò la forza di rispondere gentilmente: “Rimani, se ti fa piacere: non mi disturbi affatto.” Il mostro, visibilmente contento, sedette all’altro lato della tavola e chiese: “Mi trovi molto brutto? Rispondi sinceramente.” Bella rabbrividì, temendo di provocare la collera di lui, ma rispose: “Si, mi sembri brutto, ma credo che tu sia molto buono!” “Sono buono, infatti, ma stupido. Non ho molta intelligenza.” “Non credo che sia proprio così. Chi è stupido, non sa di esserlo, non è nemmeno sfiorato da questo dubbio! Tu, che assicuri di essere stupido, non lo sei.” “Ti ringrazio per le tue parole” replicò il mostro, guardandola con riconoscenza. “Se ne fossi capace, t risponderei con un complimento. Ma sono soltanto una bestia! Mangia, adesso. E cerca di non annoiarti, perché soffrirei troppo, se non ti sapessi contenta.”. “Ti ringrazio sinceramente. Sei tanto affidabile e generoso che non mi sembri nemmeno più così brutto. E io preferisco un essere come te, brutto e buono, a un altro bellissimo ma cattivo.” “Allora … allora … vuoi sposarmi?” balbettò il mostro. Bella, che stava rasserenandosi e quasi trovava gradevole la compagnia di lui, a quelle parole trasalì. ‘ Se rifiuto ‘ pensò, ‘ mi divorerà … ma io non posso mentite ‘. “Sento per te tanta amicizia” rispose,” ma non ti sposerò. Il mostro volle sospirare, ma il suo sospiro fu un sibilo così forte che tutto il castello ne tremò. Poi si allontanò avvilito. Bella guardò a lungo verso la porta dalla quale il mostro era uscito e si rammaricò da averlo mortificato in quel modo. ‘ Peccato! ‘pensava, ‘ che meraviglioso marito sarebbe, buono e gentile com’è, se il suo aspetto fosse un poco meno orribile! ‘. Tuttavia le rimase in cuore un certo rimorso, e attese con ansia la sera successiva, per rivedere la Bestia. La bestia ritornò la sera dopo, e anche le sere seguenti, per tre mesi che furono molto belli e sereni per la ragazza. La sola cosa che l’angustiava un pò, era la domanda che la bestia ripeteva immancabilmente tutte le sere: “Bella, vuoi sposarmi?” E Bella rispondeva ogni volta: “Ti voglio bene, cara Bestia, ma non ti sposerò.” Allora la Bestia si allontanava avvilita.
Una sera Bella disse: “Amico mio, ho veduto nello specchio che mio padre è ammalato. Le mie sorelle si sono sposate, i mie fratelli sono sotto le armi. Egli è solo. Lasciami tornare a casa a fargli un po’ di compagnia.” “La cosa che più m’importa al mondo è che tu sia contenta” rispose la Bestia. “Domattina ti sveglierai a casa tua. Ma ritornerai? Non dimenticare che, se mi lasci sol, io ne morirò.” “Ritornerò, cara Bestia,” rispose Bella commossa, “fra otto giorni sarò qui.” “Ebbene, prendi questo anello” aggiunse il mostro consegnando alla ragazza un anello d’oro ornato di un zaffiro. “Quando vorrai tornare, posalo sul tavolino, prima di coricarti. Ma ricorda che io ti aspetterò contando le ore e non saprei più vivere senza di te.” E aggiunse ancora una volta: “Vuoi sposarmi?” Udito il solito no si allontanò più avvilito e più curvo. E Bella rimase a guardarlo con grande rammarico in cuore. Andò a letto e si addormentò; e al mattino dopo aprendo gli occhi vide che era nella sua piccola fattoria di campagna, con le galline che chioccolavano sotto le finestre. Sonò il campanello e una domestica accorse: “Signor padrone, signor padrone!” incominciò a urlare, “Venite, venite a vedere!” Il babbo si precipitò su per le scale e un attimo dopo irrompeva nella camera. Sulle prime rimase senza fiato, poi aprì le braccia e non finiva più di abbracciare e baciare la sua adorata figliola da lui creduta morta. Bella gli ricambiò gli abbracci, e lo assicurò che stava bene ed era contenta. Poi desiderò alzarsi, ma non aveva nemmeno un vestito, perché i suoi abiti erano rimasti al castello della Bestia. “Come farò?” chiese ridendo. Ma la domestica rispose: “Nella stanza vicina c’è un baule che prima non c’era. E’ pieno fino all’orlo di vestiti e di gioielli degni di una regina.” ‘ Cara Bestia!’ pensò Bella, ‘ Si è ricordata anche di questo! ‘. Poi disse ad alta voce: “Dammi il vestito più semplice, perché regalerò gli altri alle mie sorelle.” Appena pronunciato queste parole che il baule sparì. “La volontà della Bestia è chiara” commentò il babbo, “vuole che soltanto tu, e non altri, indossi quegli abiti.” Appena ebbe detto questo il baule ricomparve, e Bella poté vestirsi davvero come una regina. Era più avvenente che mai, non solo per lo splendido abbigliamento, ma anche per la pace e la contentezza che brillavano nei suoi occhi e nel suo volto. Le sorella, avvertite dal babbo, accorsero subito. Erano sposate tutt’è due, ma tutt’altro che felici. Il marito della maggiore era bellissimo, ma altrettanto vanitoso e superbo. Passava la giornata ad agghindarsi e pretendeva di essere continuamente riverito e ammirato sebbene non avesse più valore di un pavone. Il marito dell’altra era ricco, ma anche avaro, ed economizzava ferocemente persino sul vitto e sugli abiti di sua moglie, la quale doveva andare in giro vestita di stracci consunti. Quando le due ragazze videro Bella splendente di gioia, di ornamenti, di bellezza, cedettero di scoppiare per l’invidia e cominciarono a commentare tra loro: “Perché nostra sorella deve essere tanto fortunata? Perché il mostro non l’ ha divorata?” chiedeva una. “Se non l’ ha divorata, la divorerà” rispondeva l’altra. “Bisogna trovare il modo di mettere contro di lei quella Bestia che le vuole troppo bene.” “Cerchiamo di trattenerla qui con noi oltre gli otto giorni” suggerì la prima. “Così bisticceranno, e il mostro la mangerà.”
Stabilirono questo, colmarono la sorella di attenzioni e di tenerezze, e Bella, non troppo abituata a vedersi così vezzeggiata, pianse di gioia. “Sorellina nostra, resta con noi qualche altro giorno!” piansero le due malvagie, stropicciandosi gli occhi, allo scadere della settimana. Bella esitò. Il pensiero della buona Bestia non l’aveva abbandonata mai, e desiderava ardentemente di rivederla al più presto; ma davanti agli occhi rossi delle sorelle si commosse e promise di rimanere per altri otto giorni. Tuttavia non era contenta; ricordava le parole del povero mostro che l’aspettava ansiosamente, e anche lei contava le ore che la dividevano da lui.
Una notte fece un sogno: vide il mostro che, smagrito, consumato dal dolore, si trascinava penosamente sull’orlo di un ruscello in fondo al giardino, e ogni tanto invocava piangendo il suo nome. Il castello, prima così luminoso, aveva tutte le finestre buie e i portoni chiusi e sembrava l’immagine della desolazione. Si svegliò all’improvviso con il cuore che le batteva forte. ‘ Sono stata un’ingrata ‘ pensò. ‘ Ho ingannato il mio povero mostro che, invece, ha avuto tanta fiducia in me. Voglio tornare da lui, e sposarlo. Le mie sorelle sono infelici, anche se hanno per mariti uomini bellissimi e ricchissimi. Ma io non ho saputo apprezzare il tesoro che Dio aveva messo sulla mia strada ‘. Si alzò e depose l’anello sul tavolino, poi tornò a letto e cadde in un sonno profondo. Al mattino si svegliò nel castello. Fece una toletta accurata indossando l’abito più sontuoso e i gioielli più splendenti, poi aspettò con ansia che il giorno finisse e che il mostro venisse a trovarla come al solito. Ma con sua grande delusione, non lo vide comparire.
Scoccarono le nove e un quarto, poi le nove e mezzo, poi le dieci: ma non si udì il solito rumore nelle stanze interne; la Bestia era proprio scomparsa! Bella non toccò cibo, seguendo con ansia il cammino delle lancette dell’orologio. Quando si persuase che il mostro, per quella sera, non sarebbe più venuto, non si sentì di aspettare fino alla sera successiva: voleva rivedere subito la sua cara Bestia! Si alzò da tavola e incominciò a percorrere il castello da cima a fondo chiamando ad alta voce; poi tendeva l’orecchio ansiosamente, ma non udiva alcun rumore. Tutte le ricchezze delle sale sfarzose ora le parevano superflue e odiose; il castello era orribile senza il povero mostro, che forse era morto per colpa sua, credendosi dimenticato. A quel pensiero, scoppio in singhiozzi e incominciò a correre su e giù per le scale, attraversando una sala dopo l’altra e chiamando con quanta voce aveva; ma le rispondevano soltanto gli echi, sotto le volte silenziose e deserte. Infine si fermò ricordando il sogno. Nel sogno la Bestia si trascinava verso la sponda del ruscello in fondo al giardino. Chissà che … veloce come il lampo scese lo scalone, attraversò i cortili, fu nel giardino. E in fondo, vicino al ruscello, abbandonato sotto un albero vide il mostro, che sembrava proprio morto. Bella cacciò un urlo: “Bestia! Mia cara Bestia!” Si gettò in ginocchio a fianco del povero essere che aveva gli occhi chiusi e gli posò la mano sul cuore, per fortuna batteva ancora. Allora corse al ruscello, tuffò il fazzoletto nell’acqua fresca e ritornò in fretta; sollevò dolcemente la testa del mostro e incominciò a bagnargli la fronte e le tempie.
Finalmente la Bestia socchiuse gli occhi e quando vide Bella, tentò di sorriderle. “Bella, quanto mi hai fatto aspettare!” disse con n filo di voce. “Credevo che non saresti ritornata e non volevo più vivere. Mi uccideva il dolore di averti perduta per sempre: ma ora che ti vedo posso morire contento.” Bella scoppiò in singhiozzi. “No, cara Bestia, non morire, altrimenti morirò anch’io! Non saprei vivere senza di te!” gridò fra le lacrime. “Come farò, se tu mi abbandoni? Come potrò vivere, senza la mia cara Bestia? Guarisci, guarisci in fretta perché io voglio sposarti, e rimanere con te per sempre!”
Appena pronunciato queste parole che il castello buoi e squallido si illuminò di una miriade di stelline d’oro, e si udì una musica trionfale. Bella si guardò intorno sbigottita, ma subito tornò con il pensiero alla sua cara Bestia morente, tese il fazzoletto umido d’acqua per rinfrescare la fronte, ma … la Bestia era scomparsa! Sdraiato sotto l’albero, accanto al ruscello, c’era invece un bellissimo principe sfarzosamente vestito, dai lineamenti perfetti come quelli di una statua, ma dagli occhi buoni e pieni d’affetto come quelli del mostro del castello incantato. Egli mise un ginocchio a terra, prese affettuosamente la mano a Bella e gliela baciò. ”Dov’è, dov’è la mia cara Bestia?” chiese la fanciulla tutta turbata; e si guardò intorno cercando ansiosamente l’amato mostro che sembrava scomparso. “La Bestia sono io” disse il giovane principe con la voce che aveva ancora l’antico timbro, ma che era diventata più melodiosa, e aggiunse tristemente: “Una volta ero un principe buono, bello, ricco e felice, ma una strega invidiosa mi tolse tutto, meno la bontà, e mi trasformato nell’orribile mostro che tu hai conosciuto. Sarei rimasto così per sempre, se non avessi incontrato una creatura di animo tanto elevato da apprezzare nonostante la mia bruttezza e la mia apparente stupidità. Se questa fanciulla avesse acconsentito a sposarmi, io sarei stato liberato dall’incantesimo; perciò ogni sera ti chiedevo se mi avessi voluto per marito, e non mi disperavo per il tuo diniego, confidando sempre che tu cambiassi idea. Quando te ne sei andata, ho creduto che non tornassi più, e ho visto crollare le mie speranze, tanto più che ti amavo appassionatamente. Ma eccoti qui di nuovo. Mi vuoi bene, e finalmente accetti di essere mia moglie. Sarai anche regina nel mio regno. ”
Bella, udendo la voce tanto amata e vedendo la bontà che sfavillava negli occhi del suo bellissimo principe, ricominciò a piangere, ma questa volta di gioia. I due giovani si presero per mano e ritornarono verso il castello fra la pioggia di stelline multicolori che i fuochi artificiali facevano brillare nel cielo. E nella grande sala illuminata trovarono riunita tutta la famiglia: il padre di Bella, le due sorelle e i loro mariti. C’era anche una bellissima signora con un abito azzurro tempestato di stelle d’argento. “Una volta, in sogno, ti ho promesso che la tua bontà sarebbe stata ricompensata” disse la signora sorridendo a Bella. “Sarai una potente regina a fianco di un potente re che alla bellezza e all’intelligenza unisce anche il cuore d’oro che tu hai saputo apprezzare. In quanto a voi,” continuò rivolta alle sorelle “che avete invece il cuore duro come la pietra, diventerete davvero di pietra e, trasformate in statue, assisterete alla felicità di vostra sorella fino al giorno in cui vi pentirete della vostra cattiveria.” Immediatamente le due sorelle divennero due statue; poco dopo la fata diede un colpo della sua bacchetta magica e tutti furono trasportati nel regno del principe. Il principe sposò Bella, e i due vissero per lunghi anni felici e contenti.


Versione di Charles Perrault

C’era una volta un mercante che era ricco sfondato. Aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femmine; e siccome era un uomo che sapeva il vivere del mondo, non risparmiò nulla per educarli e diede loro ogni sorta di maestri. Le sue figlie erano bellissime: la minore soprattutto era una maraviglia, e da piccola la chiamavano la bella bambina, e di qui le rimase il soprannome di Bella, che fu poi cagione di gran gelosia per le sue sorelle.
Questa figlia minore, oltr’essere la più bella, era anche la più buona delle altre.
Le due maggiori, perché erano ricche, avevano molto fumo; si davano l’aria di grandi signore, e non gradivano la compagnia delle figlie degli altri negozianti, ma se la dicevano soltanto col nobilume.
Andavano dappertutto: ai balli, alle commedie, alle passeggiate; e si ridevano della sorella minore, perché spendeva una gran parte del suo tempo nella lettura dei buoni libri.
E perché si sapeva che erano molto ricche, parecchi negozianti, di quelli grossi davvero, le chiesero in mogli; ma la maggiore e la seconda dissero chiaro e tondo che non si sarebbero mai maritate, se non fosse capitato loro un Duca o a dir poco un Conte.
La Bella (oramai vi ho detto che questo era il nome), la Bella, dunque, ringraziò con molta buona maniera coloro che volevano sposarla: e disse che era troppo giovane e che voleva tener compagnia ancora per qualche anno al suo genitore.
Quand’ecco che tutto a un tratto il mercante fece un gran fallimento e non gli rimase altro che una piccola casa assai lontana dalla città. Disse allora ai suoi figli, colle lacrime agli occhi, che bisognava rassegnarsi e andare ad abitare in quella casetta dove, mettendosi tutti a fare i contadini, avrebbero potuto campare e tirarsi avanti.
Le due ragazze più anziane risposero che non volevano saperne nulla di lasciare la città, dov’avevano molti amanti, ai quali non sarebbe parso vero di poterle sposare, anche senza un soldo di dote.
Ma le povere figliuole s’ingannavano all’ingrosso perché, quando furono povere, tutti i loro amanti girarono largo. E siccome, a motivo della loro superbia, non erano in generale ben vedute, cosi dicevano tutti: “Non meritano compassione: è giusta che abbiano dovuto ripiegare le corna; che vadano ora a fare le grandi signore dietro le pecore e i montoni!”.
Ma nel tempo stesso tutti dicevano: “Quanto alla Bella, ci rincresce proprio della sua disgrazia: è una gran buona figliuola! è così alla mano coi poveri, e tanto amorosa e gentile!”.
Ci furono fra gli altri parecchi gentiluomini che la volevano sposare, sebbene non avesse più un soldo di dote: ma essa disse che non sapeva risolversi a lasciare il suo povero padre nella disgrazia, e che sarebbe andata con lui fra i campi, per consolarlo e dargli una mano nelle fatiche.
La povera Bella, da principio, era rimasta molto male dell’aver perduto ogni ben di fortuna; ma poi si consolò col dire fra sé e sé: “Quand’anche mi struggessi dal pianto, non varrebbe a farmi ricattare quello che ho perso: dunque è meglio cercare di essere felici, anche senza un centesimo in tasca”.
Appena arrivati alla casa di campagna, il mercante e le sue tre figlie si dettero subito a lavorare i campi.
La Bella si alzava la mattina alle quattro, avanti giorno, e si dava il pensiero di ripulir la casa e di preparare la colazione e il desinare per la famiglia.
Sul primo ci pativa un poco, perché non era avvezza a strapazzarsi come una serva: ma di lì in capo a due mesi si fece più robusta e, faticando tutto il giorno, acquistò una salute di ferro.
Quando aveva finite le sue faccende, si metteva a leggere o a suonare la spinetta: o anche canterellava e filava.
Le sue sorelle, invece, s’annoiavano da non averne idea: si levavano alle dieci della mattina, girellavano tutto il giorno e trovavano una specie di svago a rimpiangere i bei vestiti e la bella società di una volta.
“Guarda un po’”, dicevano fra loro, “come è stupida la nostra sorella minore: e che caratteraccio triviale ! Essa è contenta come una pasqua di trovarsi nella sua disgraziata condizione!…”
Ma il buon mercante non la pensava così. Egli sapeva che Bella aveva molto più garbo delle sue sorelle a fare spicco in società: e ammirava la virtù di questa giovinetta e segnatamente la sua rassegnazione; perché bisogna sapere che le sue sorelle, non contente di buttare addosso a lei tutte le faccende della casa, la punzecchiavano continuamente con mille parole insolenti.
Era corso un anno dacché questa famiglia viveva lontana dalla città, quando il mercante ebbe una lettera nella quale gli si diceva che un bastimento, carico di mercanzie, di sua proprietà, era arrivato felicemente!
Ci scattò poco che questa notizia non facesse dar la balta al cervello alle due ragazze maggiori, le quali speravano così di poter lasciare la campagna, dove morivano dalla noia: e quando videro il padre sul punto di partire, lo pregarono che portasse loro dei vestiti, delle mantelline, dei cappellini e altri gingilli di moda.
La Bella non gli chiese nulla, perché aveva già capito che tutto il valsente delle merci arrivate non sarebbe bastato a contentare i capricci delle sue sorelle.
“E tu non vuoi che ti compri nulla?”, le disse suo padre.
“Poiché siete tanto buono da pensare a me”, ella rispose, “fatemi il piacere di portarmi una rosa: che in questi posti non ci fanno.”
Non vuol dir già che alla Bella premesse la rosa: ma lo fece, per non criticare col suo esempio la condotta delle sorelle; le quali avrebbero detto che non chiedeva nulla, per farsi distinguere e dar nell’occhio.
Il buon uomo partì, ma appena giunto, ebbe a sostenere un processo a causa delle sue mercanzie: e dopo mille seccature, se ne tornò indietro più povero di prima.
Gli restavano da fare non più di trenta miglia per arrivare a casa, e già si consolava nel pensiero di rivedere la sua famigliola; ma dovendo traversare un gran bosco, si smarrì e perdé la strada.
La neve fioccava da far paura, e soffiava un vento così strapazzone, che lo gettò per due volte giù da cavallo. Venuta la notte, egli cominciò a credere di dover morire o di fame e di freddo, o divorato dai lupi, che si sentivano urlare a poca distanza.
Quando a un tratto, nel voltar l’occhio verso il fondo di una lunga sfilata d’alberi, vide una gran fiamma che pareva lontana lontana.
S’avviò da quella parte, e poté distinguere che quella luce usciva da un gran palazzo, che era tutto illuminato.
Il mercante ringraziò il cielo del soccorso mandatogli e si affrettò per giungere a questo castello; ma rimase grandemente stupito di non trovarci anima viva.
Il suo cavallo, che gli andava dietro, avendo visto una bella scuderia aperta, entrò dentro; e trovatovi fieno e biada, il povero animale, che moriva di fame, vi si buttò sopra con grandissima avidità.
Il mercante lo legò alla greppia: e s’avviò verso la casa, dove non trovò nessuno. Ma entrato che fu in una gran sala, vi trovò un bel fuoco acceso, una tavola apparecchiata e con molte pietanze: ma c’era una posata sola.
Essendo bagnato fino al midollo dell’ossa, per la neve e la molt’acqua che aveva preso, si avvicinò al fuoco per asciugarsi, dicendo fra sé: “Il padrone di casa e i suoi domestici mi scuseranno della libertà che mi prendo! Sono sicuro che staranno poco ad arrivare”.
Aspetta, aspetta e nessuno veniva: finché suonarono le undici e ancora non s’era visto alcuno. Allora non potendo più stare alle mosse, dalla gran fame prese un pollastro e, tremando dalla paura, lo mangiò in due bocconi.
Bevve anche qualche sorso di vino, e messo su un po’ di coraggio, uscì dalla sala e traversò molti quartieri splendidamente tappezzati e ammobiliati. Alla fine trovò una camera dove c’era un buon letto: e perché era mezzanotte suonata e si sentiva stanco morto, prese il partito di chiuder l’uscio e di coricarsi.
La mattina dopo si svegliò verso le dieci: e figuratevi come rimase, quando trovò un vestito molto decente nel posto dove aveva lasciato il suo, che era tutto logoro e cascava a pezzi.
“Si vede bene”, egli disse, “che in questo palazzo ci sta di casa qualche buona fata, che si è mossa a compassione di me.”
Si affacciò alla finestra e non vide più un filo di neve, ma pergolati di bellissimi fiori, che innamoravano soltanto a guardarli.
Ritornò nella gran sala, dove la sera avanti aveva cenato e vide una piccola tavola, con sopra una chicchera e un vaso di cioccolata.
“Grazie tante”, diss’egli a voce alta, “grazie tante, signora fata, della garbatezza di aver pensato alla mia colazione.”
Il buon uomo, quand’ebbe preso la cioccolata, uscì per andare dal suo cavallo; e passando sotto un pergolato di rose si ricordò che la Bella gliene aveva chiesta una, e staccò un tralcio dove ce n’erano parecchie bell’e sbocciate.
In quel punto stesso sentì un gran rumore e vide venirsi incontro una bestia così spaventosa, che ci corse poco non cascasse svenuto:
“Voi siete molto ingrato”, disse la Bestia con una voce da far rabbrividire, “vi ho salvata la vita accogliendovi nel mio castello, e in ricambio voi mi rubate le mie rose, che è per l’appunto la cosa che io amo soprattutto in questo mondo. Per riparare al mal fatto non vi resta altro che morire: vi do tempo un quarto d’ora per chiedere perdono a Dio”.
Il mercante si gettò in ginocchio e a mani giunte prese a dire alla Bestia:
“Monsignore, perdonatemi: non credevo davvero di offendervi a cogliere una rosa per una delle mie figlie, che me l’aveva domandata”.
“Non mi chiamo Monsignore”, rispose il mostro, “ma Bestia. I complimenti non fanno per me; io voglio che ognuno parli come la pensa: per cui non vi mettete in capo d’intenerirmi colle vostre moine. Mi avete detto che avete delle figliuole: ebbene, io potrò perdonarvi a patto che una di codeste figliuole venga qui a morire volontariamente nel posto vostro. Non una parola di più; partite, e caso le vostre figlie ricusassero di morire per voi, giurate che dentro tre mesi ritornerete.”
Quel pover’uomo non aveva punta intenzione di sacrificare alcuna delle sue figlie al brutto mostro, ma pensò dentro di sé: “Non foss’altro avrò almeno la consolazione di poterle abbracciare un’altra volta”.
Fece giuro di tornare, e la Bestia gli disse che poteva partire a piacer suo. “Ma non voglio”, soggiunge, “che tu debba andartene colle mani vuote. Ritorna nella camera dove hai dormito; ci troverai un gran baule vuoto; ché io penserò a fartelo portare fino a casa.”
Detto questo, la Bestia se ne andò, e il buon uomo disse fra sé e sé: “Almeno, se ho da morire, potrò lasciare un boccon di pane a’ miei poveri ragazzi”.
E tornò nella camera dove aveva dormito, e avendovi trovato delle monete d’oro a corbellini, ne empì il baule, di cui gli aveva parlato la Bestia: quindi lo chiuse, e ripreso il cavallo lasciato nella scuderia, uscì dal palazzo con tanto malessere addosso, quanta era la gioia colla quale vi era entrato. Il cavallo prese da sé uno dei viottoli della foresta, e in poche ore il buon uomo arrivò alla sua casetta. I suoi figli gli furono tutti d’intorno: ma invece di mostrarsi lieto alle loro carezze, il mercante li guardava e gli cascavano i lacrimoni dagli occhi. Egli aveva in mano il tralcio di rose, che portava a Bella: e nel darglielo, disse: “Bella, pigliate queste rose: ma costeranno molto care al vostro povero padre!”.
E così raccontò alla famiglia il brutto caso che gli era capitato.
A quella storia le due sorelle maggiori si messero a berciare e dissero mille cosacce a Bella, la quale non piangeva né punto né poco.
“Ecco le conseguenze”, esse dicevano, “dell’orgoglio di questa monella: perché anche lei non fece come noi e non chiese dei vestiti? Nient’affatto! la signorina voleva distinguersi. E ora è lei la cagione della morte di suo padre e non se ne fa né in qua né in là.”
“Sarebbe inutile”, soggiunse Bella, “e perché dovrei piangere la morte di mio padre? Egli non morirà una volta che il mostro si contenta di accettare in cambio una delle sue figlie; io voglio mettermi in balìa del suo furore: e sono molto felice, perché così potrò avere la contentezza di salvare il padre mio e di provargli il gran bene che gli ho sempre voluto.”
“No, sorella mia”, le dissero i suoi tre fratelli, “tu non morirai: noi anderemo a trovare il mostro, e periremo sotto i suoi colpi, se non saremo buoni di ucciderlo.”
“Non lo sperate, ragazzi miei”, disse loro il mercante, “la potenza di questa Bestia è così sterminata, che non c’è caso di poterla uccidere. Mi fa una vera consolazione il buon cuore di Bella: ma non voglio mandarla a morire. Io son vecchio; non mi resta che poco tempo da vivere; così, male che vada, posso scorciarmi di qualche anno la vita; cosa che non rimpiango punto, perché lo faccio per amor vostro, miei cari figliuoli.”
“Vi do la mia parola, padre mio”, disse Bella, “che voi non anderete a quel palazzo, senza di me: voi non mi potete impedire di seguirvi. Sebbene giovane, io non sono molto attaccata alla vita, e preferisco esser divorata da quel mostro, che morire dalla pena che mi farebbe la vostra perdita.”
Ebbero un bel dire, ma la Bella volle a ogni costo partire anche lei per il palazzo del mostro; e alle sorelle non parve vero, perché si rodevano di gelosia per le belle doti della sorella minore.
Il mercante era così stonato dal dolore di dover perdere la figlia, che non gli passò per il capo neppure il baule che egli aveva riempito di monete d’oro.
Ma appena fu in camera restò grandemente stupito di trovarlo al piè del letto. Risolvette di non dir nulla in casa di essere diventato ricco, per paura che le figlie si mettessero in testa di voler tornare in città, mentre egli aveva fatto conto di voler morire in quella campagna. Peraltro confidò il segreto a Bella, la quale gli raccontò come nel tempo che era stato lontano, alcuni gentiluomini fossero venuti per casa e come, fra questi, ve ne fossero due che amoreggiavano colle sue sorelle. Si raccomandò al padre che le maritasse; perché essa era tanto buona di cuore, che le amava tutte e due, e perdonava loro tutto il male che le avevano fatto.
Quelle due cattive si strofinarono gli occhi colla cipolla per farsi venire i lucciconi, al momento che Bella partì con suo padre: ma i fratelli piangevano davvero: e anche il mercante. La sola che non piangesse era Bella, la quale non voleva inciprignire il dolore di tutti gli altri.
Il cavallo prese la via del palazzo, e sul far della sera cominciarono di lontano a vederlo illuminato, tale e quale come la prima volta.
Il cavallo andò da sé solo nella scuderia: e il buon uomo entrò con sua figlia nella gran sala, dove trovarono una gran tavola magnificamente apparecchiata per due.
Il mercante non sapeva da che verso rifarsi per mangiare; ma la Bella, sforzandosi di parer tranquilla, si messe a tavola e lo servì: poi diceva dentro di sé:
“Capisco bene che la Bestia vuole ingrassarmi prima di far di me un boccone! me n’accorgo dalla maniera con cui mi tratta”.
Quand’ebbero cenato, udirono un gran fracasso e il mercante, colle lagrime agli occhi, disse addio alla sua povera figlia, perché sapeva che la Bestia era lì lì per arrivare.
La Bella, alla vista di quell’orribile figura, sentì fare un cavallone al sangue: ma s’ingegnò di non darlo a divedere: e quando il mostro le domandò s’era venuta da lui volentieri, rispose con voce tremante di sì.
“Davvero che siete molto buona”, disse la Bestia, “e io vi sono riconoscentissimo. Buon uomo! domani partirete, e Dio vi guardi dal tornare in questo luogo. Addio, Bella.”
“Addio, Bestia”, ella rispose.
E il mostro sparì.
“Oh ! figlia mia”, disse il mercante abbracciandola e baciandola, “io son mezzo morto dalla paura. Fai a modo mio; lasciami morir qui.”
“No, padre mio”, rispose la Bella con fermezza, “voi partirete domani mattina, e mi abbandonerete all’aiuto del cielo. Il cielo forse avrà compassione di me!…”
L’uno e l’altro andarono a letto, coll’idea che in tutta la notte non sarebbero stati buoni a chiudere un occhio, ma invece, appena si furono coricati nei loro letti, si addormentarono come ghiri. E la Bella vide in sogno una Regina, la quale le disse:
“O Bella, io son contenta del vostro buon cuore. La nobile azione che fate, dando la vita per quella di vostro padre, non rimarrà senza premio”.
Quando la Bella si svegliò, raccontò il sogno a suo padre, e sebbene questa cosa lo rinfrancasse un poco, non bastò peraltro a trattenerlo dal dare in grandissimi pianti, quando gli fu forza staccarsi dalla sua figlia adorata.
Partito che fu, la Bella andò a sedersi nella gran sala; e anche essa cominciò a piangere; ma essendo molto coraggiosa, si raccomandò a Dio e fece conto di non darsi tanto alla disperazione per quel poco di tempo che le restava ancora da vivere: perché ella credeva fermamente che la Bestia sarebbe venuta a mangiarla nella serata.
Intanto, mentre aspettava, pensò bene di girare e di visitare il castello, del quale non poteva starsi dall’ammirare le grandi bellezze.
E figuratevi se rimase a bocca aperta, quando vide una porta sulla quale c’era scritto: Quartiere della Bella.
Aprì in fretta e in furia questa porta e fu abbagliata dalle magnificenze che vi erano dentro; ma ciò che maggiormente la colpì, fu la vista di una gran biblioteca, di un clavicembalo e di molti quaderni di musica.
“Si vede proprio che non vogliono che io mi annoi”, disse fra sé e sé; quindi pensò:
“Se io dovessi albergare qui un giorno solamente, non mi avrebbero ammannito tutte queste belle cose”.
Questo pensiero rianimò il suo coraggio. Ella aprì la biblioteca e vide un libro sul quale era scritto a lettere d’oro: “Desiderate e comandate; voi siete qui signora e padrona!…”.
“Meschina me!”, diss’ella, “io non ho altro desiderio che di vedere il mio povero padre e di sapere che cos’è di lui in questo momento! ”
Queste parole le aveva dette dentro di sé, ma quale non fu il suo stupore, quando gettando gli occhi sopra uno specchio, vi mirò la sua casa, e per l’appunto in quel momento in cui vi giungeva suo padre con un viso da far pietà. Le sue sorelle gli andavano incontro; e malgrado le smorfie che facevano per parere afflitte, mostravano sul viso e a fior di pelle la contentezza provata per la perdita della loro sorella.
Dopo un minuto sparì ogni cosa, ma la Bella non poté far di meno di pensare che la Bestia era molto compiacente, e che non aveva nulla da temere da essa.
A mezzogiorno trovò la tavola bell’e apparecchiata: e durante il pranzo udì un’eccellente musica, senza che potesse vedere alcuno.
La sera mentre stava per mettersi a tavola, sentì il fracasso che faceva la Bestia e fu presa da un tremito di paura:
“Bella”, le disse il mostro, “siete contenta che io stia a vedervi mentre cenate?”.
“Non siete voi il padrone?”, rispose la Bella, tremando.
“No”, replicò la Bestia, “qui non c’è altri padroni che voi; se vi sono importuno, non dovete far altro che dirmelo e me ne anderò subito. Ditemi una cosa: non è vero che io vi sembro molto brutto?”
“» vero, sì”, rispose Bella, “perché io non sono avvezza di dire una cosa per un’altra; peraltro vi credo buonissimo di cuore.”
“Avete ragione”, disse il mostro, “ma oltre all’essere brutto io non ho punto spirito, e so benissimo d’essere una Bestia.”
“Non è mai una Bestia”, rispose Bella, “colui che crede di non avere spirito. Gl’imbecilli non arriveranno mai a capire questa cosa.”
“Su dunque, mangiate, Bella”, le disse il mostro, “e cercate tutti i mezzi per non annoiarvi nella vostra casa: perché tutto quello che vedete qui, è roba vostra: e io sarei mortificato se non vi sapessi contenta.”
“Voi avete molta bontà per me”, disse la Bella, “e sono contentissima del vostro cuore: quando ci penso non mi sembrate nemmeno tanto brutto.”
“Oh! per questo”, rispose la Bestia, “il cuore è buono: ma io sono un mostro!”
“Conosco degli uomini che sono più mostri di voi”, disse Bella, “e quanto a me, mi piacete più voi con codesta vostra figura, di tant’altri che, sotto l’aspetto d’uomo, nascondono un cuore falso, corrotto e sconoscente.”
“Se avessi un po’ di spirito”, disse la Bestia, “farei un complimento per ringraziarvi: ma io sono uno stupido; e tutto quel che posso dirvi è che vi sono obbligato.”
La Bella cenò di buon appetito. Essa non aveva quasi più paura del mostro; ma fu lì lì per morire di spavento, quando egli le disse: “Bella, volete esser mia moglie?”.
Ella stette un po’ di tempo senza rispondere: aveva paura di svegliare la collera del mostro con un rifiuto; a ogni modo disse con voce tremante:
“No, Bestia”.
A questa risposta il povero mostro volle mandar fuori un sospiro e gli venne fatto un sibilo così spaventoso, che ne rintronò tutto il palazzo.
Ma la Bella fu presto rassicurata, perché la Bestia, dopo averle detto “addio, dunque, Bella”, uscì dalla camera voltandosi indietro tre o quattro volte per poterla ancora vedere.
Quando la Bella fu sola cominciò a sentire una gran compassione per la povera Bestia, e diceva: “Che peccato che sia così brutta, mentre sarebbe tanto buona!”.
La Bella, per tre mesi, menò in questo palazzo una vita abbastanza tranquilla.
Tutte le sere la Bestia andava a farle visita, e durante la cena si tratteneva con lei, facendo mostra di molto buon senso, ma giammai di ciò che si chiama spirito fra le persone del mondo galante. Ogni giorno che passava, la Bella scopriva nuovi pregi nel mostro. A furia di vederlo, aveva fatto l’occhio alle sue bruttezze, e invece di temere il momento della sua visita, ella guardava spesso l’orologio per vedere quanto mancava alle nove, perché la Bestia a quell’ora era sempre precisa.
Una sola cosa metteva di mal umore la Bella; ed era che tutte le sere, avanti di andare a letto, il mostro le domandava se voleva essere sua moglie, e rimaneva mortificatissimo quand’essa rispondeva di no.
Ella disse un giorno: “Voi mi fate una gran pena, Bestia; vorrei potervi sposare, ma sono troppo sincera per darvi a sperare una cosa che non sarà mai. Io sarò sempre vostra buon’amica. Contentatevi di questo”.
“Per forza!” rispose la Bestia. “Io son giusto. Io so che sono orrendo: ma vi voglio un gran bene. A ogni modo, io mi chiamo abbastanza fortunato se vi adattate a restar qui: promettetemi che non mi lascerete mai.”
La Bella a queste parole fece il viso rosso. Ella aveva visto nello specchio che suo padre era malato dal dolore di averla perduta, e desiderava rivederlo. “Io potrei benissimo promettervi” diss’ella alla Bestia “di non lasciarvi più per sempre; ma mi struggo tanto di rivedere il padre mio, che morirei di crepacuore se mi rifiutaste questo piacere.”
“Vorrei piuttosto morire”, disse il mostro, “che darvi un dispiacere; io vi manderò da vostro padre: voi resterete con lui e la vostra Bestia morirà di dolore.”
“No”, rispose la Bella piangendo, “io vi voglio troppo bene per essere cagione della vostra morte. Vi prometto di ritornare fra otto giorni. Mi avete fatto vedere che le mie sorelle sono maritate e che i miei fratelli sono partiti per l’armata. Il mio povero padre è rimasto solo; lasciatemi almeno una settimana con lui.”
“Domattina ci sarete”, disse la Bestia, “ricordatevi delle vostre promesse. Quando vorrete tornare, non dovete far altro che posare il vostro anello sopra la tavola nell’andare a letto. Addio, Bella.”
La Bestia, mentre parlava così, sospirò secondo il suo uso solito, e la Bella andò a letto, tutta dispiacente di avergli dato questo dolore.
Quando si svegliò la mattina dopo, si trovò in casa di suo padre; e avendo suonato il campanello accanto al letto, vide venire la serva, la quale cacciò un grand’urlo di sorpresa.
Il buon uomo di suo padre, a quell’urlo, corse subito, e nel rivederla, ci mancò poco non morisse dalla contentezza: e stettero abbracciati per più di un quarto d’ora.
Sfogate le prime tenerezze, la Bella pensò che non aveva vestiti per potersi levare, ma la serva le disse di aver trovato nella stanzaa accanto un gran baule pieno di vestiti, tutti d’oro e ornati di brillanti.
La Bella ringraziò la buona Bestia delle sue attenzioni: scelse fra quei vestiti il meno vistoso e ordinò alla serva di riporre gli altri, dei quali intendeva farne un regalo alle sorelle: ma appena ell’ebbe pronunziate queste parole, il baule sparì. Peraltro suo padre avendole detto che la Bestia voleva che ella serbasse per sé ogni cosa, il baule ritornò al suo posto.
La Bella si vestì, e in questo mentre furono avvertite le sue sorelle, le quali corsero subito insieme ai cari mariti. Tutte e due avevano combinato molto male! La maggiore aveva sposato un gentiluomo, bello come un amore, ma tanto innamorato di sé, che dalla mattina alla sera non faceva altro che guardarsi allo specchio, senza curarsi né punto né poco della bellezza della moglie.
La seconda aveva sposato un uomo che aveva molto spirito, ma se ne serviva soltanto per essere la disperazione di tutte le donne, cominciando da sua moglie.
Le sorelle di Bella quando la videro vestita come una Regina e bella come un occhio di sole, se non creparono dalla rabbia, fu un miracolo.
Ella ebbe un bell’accarezzarle; nulla poté ammansire la loro gelosia; la quale anzi si accrebbe a cento doppi, quando raccontò quanto era felice.
La due invidiose scesero in giardino per potersi sfogare a piangere, e dicevano:
“O perché quella ragazzuccia è più fortunata di noi? Non siamo forse più graziose e più belle di lei?”.
“Cara sorella”, disse la maggiore, “mi viene un’idea: facciamo di tutto per trattenerla qui per più di otto giorni; la sua stupida Bestia andrà sulle furie per la parola non mantenuta e forse la divorerà per castigarla.”
“Dici bene, sorella”, rispose l’altra, “ma perché la cosa riesca, bisogna cercare di ammaliarla con molte moine.”
Preso questo partito, risalirono in casa tutt’e due e cominciarono a fare tante e poi tante garbatezze alla sorella, che questa ne pianse di consolazione. Passati che furono gli otto giorni, le due sorelle si strapparono i capelli e diedero segni di disperazione per la partenza di lei, che ella finì col promettere di trattenersi altri otto giorni.
Intanto la Bella rimproverava a se stessa il dolore che stava per dare alla sua povera Bestia, che essa amava davvero e che ora era dispiacente di non poterla vedere. La decima notte che ella passò in casa del padre, sognò di trovarsi nel palazzo e di vedere la Bestia distesa sull’erba, vicina a morire, e che le rinfacciava la sua ingratitudine.
Bella si destò tutt’a un tratto e pianse: “Non son io molto cattiva” essa diceva “di dare questo dispiacere a una Bestia, che è stata tanto buona con me? » colpa sua se è così brutta e se ha poco spirito? Ella è buona: e questo val più d’ogni cosa. Perché non ho io voluto sposarlo? Io sarei più felice con lui che le mie sorelle coi loro mariti. Non è la bellezza né lo spirito di un marito che rendono felice una donna; ma la bontà del carattere, la virtù e le buone maniere: e la Bestia ha tutte queste belle cose. Io non sento amore per essa ma la stimo, e ho per lei amicizia e riconoscenza. Ma non debbo renderla disgraziata: questa ingratitudine sarebbe per me un rimorso per tutta la vita”.
Dette queste parole, la Bella si leva, mette l’anello sulla tavola e ritorna a letto. Appena coricata si addormentò e, svegliandosi la mattina, vide con gioia di essere nel palazzo della Bestia.
Si messe i vestiti più belli per andarle a genio anche di più, e s’annoiò mortalmente nella smania di aspettare che arrivassero le nove ore di sera: ma l’orologio ebbe un bel suonare le nove: la Bestia non comparve.
La Bella allora temé di averle cagionato la morte: e disperata si dette a girare per tutto il palazzo, mandando altissimi pianti.
Dopo aver cercato dappertutto, si ricordò del sogno e corse in giardino, vicino al fiume, dove dormendo, l’aveva veduta.
E difatti fu lì che trovò la povera Bestia distesa per terra priva di sensi: talché la credette morta. Senza provar ribrezzo di quella brutta figura, si gettò tutta sopra lei, e avendo sentito che il cuore batteva sempre, prese dal fiume un po’ d’acqua e le bagnò la testa.
La Bestia aprì gli occhi e disse alla Bella: “Voi avete dimenticata la vostra promessa: e il gran dolore di avervi perduta mi ha fatto decidere a lasciarmi morir di fame: ma ora muoio contenta, perché ho avuto la consolazione di potervi rivedere”.
“No, mia cara Bestia, voi non morirete”, le disse la Bella, “voi vivrete per diventare mio sposo: da questo momento io vi do la mia mano, e giuro che non sarò d’altri che di voi. Ohimè! io credeva di non aver per voi che dell’amicizia, ma il dolore che sento mi fa credere che non potrei più vivere senza vedervi.”
Appena la Bella ebbe pronunziato queste parole, ecco che tutto il castello appare risplendente di lumi: i fuochi di artifizio, la musica, ogni cosa annunziava una gran festa. Ma queste meraviglie non incantarono punto i suoi occhi: ella si voltò verso la sua cara Bestia, il cui pericolo la teneva in tanta agitazione. E quale fu il suo stupore! La Bestia era sparita, ed essa non vide ai suoi piedi che un Principe bello come un amore, il quale la ringraziava per aver rotto il suo incantesimo. Sebbene questo Principe meritasse tutte le sue premure, ella non poté stare dal chiedergli dove fosse la Bestia.
“Eccola ai vostri piedi”, le disse il Principe, “una fata maligna mi aveva condannato a restare sotto quell’aspetto finché una bella fanciulla non avesse acconsentito a sposarmi, e mi aveva per di più proibito di far mostra di spirito. Così in tutto il mondo non ci voleva che voi, per lasciarsi innamorare dalla bontà del mio carattere: ed offrendovi la mia corona, non posso sdebitarmi del gran bene che mi avete fatto.”
La Bella, piacevolmente sorpresa, porse la mano al bel Principe perché si rialzasse in piedi. E andarono insieme al castello, dov’essa ci mancò poco non si sentisse svenire dalla gioia, trovando nella gran sala il padre suo e tutta la sua famiglia, tra sportata al castello da quella bella Signora che le era apparsa in sogno.
“Bella”, le disse questa Signora, che era una fata e di quelle coi fiocchi, “venite a ricevere la ricompensa della vostra buona scelta: voi avete preferito la virtù alla bellezza e allo spirito, e meritate per questo di trovare tutte quelle cose raccolte in una sola persona. Voi state per diventare una gran Regina: ma spero che il trono non vi farà scordare le vostre virtù. Quanto a voi, mie care signore” disse la fata alle due sorelle della Bella “conosco il vostro cuore e tutta la cattiveria che c’è dentro: diventerete due statue; ma nondimeno serberete il lume della ragione sotto la vostra forma di pietra. Starete alla porta del palazzo di vostra sorella; e non vi impongo altra pena che quella di essere testimoni della sua felicità. Non potrete ritornare nello stato primiero, se non quando riconoscerete i vostri errori: ma ho una gran paura che dobbiate restare statue per sempre. Si può correggere l’orgoglio, le bizze, la gola, la pigrizia; ma la conversione di un cuore invidioso e cattivo è una specie di miracolo.”
Nel dir così, diede un colpo di bacchetta, e tutti quelli che erano in quella sala, furono trasportati negli Stati del Principe. I suoi sudditi lo rividero con gioia, ed esso sposò la Bella, che visse con lui lungamente e in una felicità perfetta, perché era fondata sulla virtù.
La versione riportata è la traduzione di Carlo Collodi presente ne “I racconti delle fate“, dal testo di Perrault, ma la fiaba ha diverse origini, si citano Apuleio, Straparola, Basile, Jeanne-Marie Leprince di Beaumont e molti altri.

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