Barbablù

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Barbablù

Barbablù è una fiaba scritta dallo scrittore francese Charles Perrault nel XVII secolo facente parte della raccolta Histoires ou contes du temps passé. La versione di Perrault ha un tono piuttosto pedagogico, dove soprattutto richiamava i lettori a non lasciarsi guidare dall’esagerata curiosità.

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Nel corso degli anni molti esegeti hanno cercato di identificare quale reale personaggio si nascondesse dietro la maschera di Barbablù essendo convinti che alla base della fiaba di Perrault ci fosse un fondo di verità. Alcuni vi hanno voluto vedere un’ispirazione ai vari matrimoni del re inglese Enrico VIII, che nella propria vita cambiò sei mogli, facendone condannare qualcuna a morte.

In effetti nel carattere di Barbablù si potrebbe ben rispecchiare non solo il carattere dispotico e tirannico del sovrano inglese, ma anche la sua crudeltà nello sbarazzarsi velocemente delle proprie ex consorti.

Altri invece, considerando la “nazionalità” della tradizione, hanno pensato di mettere in correlazione Barbablù e la leggenda bretone di Conomor e Trifina: anche le ricche mogli di Conomor scomparivano all’improvviso assieme ai loro figli, perché una profezia aveva rivelato all’uomo che sarebbe morto per mano di suo figlio.

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Barabablù DA LEGGERE

di Charles Perrault

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C’era una volta un uomo, che aveva belle case e belle ville, vasellame d’oro e d’argento, mobili ricamati, carrozze tutte dorate; ma per disgrazia quest’uomo aveva la barba blù; e ciò lo rendeva così brutto e terribile, che non c’era donna o ragazza che non scappasse in vederlo.

Una sua vicina, una gran signora, aveva due figlie bellissime. Egli ne domandò una in moglie, lasciandole la scelta di dargli questa o quella. Nessuna delle due lo voleva, e se lo rimandavano l’una all’altra, non potendo risolversi a sposare un uomo con la barba blu. Un’altra cosa le disgustava, ed era ch’egli s’era già parecchie volte ammogliato, né si sapeva che n’era avvenuto delle diverse mogli.

Barbablù, per far conoscenza, le condusse con la mamma, tre o quattro delle migliori loro amiche e alcuni giovani del vicinato, in una delle sue ville, dove si fermarono otto giorni interi. Passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, banchetti, non si faceva altro. Anzi che dormire, si passava tutta la notte a giocarsi dei tiri, a scherzare; tutto in somma andò così bene che la più giovane cominciò a trovare che il padron di casa non aveva la barba tanto blu e che era un uomo proprio come si deve. Tornati appena dalla villa, il matrimonio fu conchiuso.

In capo a un mese, Barbablù disse alla moglie di dover fare un viaggio in provincia, di almeno sei settimane, per un affare di gran momento; si divertisse nell’assenza di lui, invitasse le amiche, le menasse se mai in villa, si trattasse sempre alla grande.

“Ecco, le disse, le chiavi delle due grandi guardarobe, ecco quelle del vasellame d’oro e d’argento che non si adopera tutti i giorni, ecco quelle dei forzieri dove conservo l’oro e l’argento, quelle degli scrigni con le gemme, ed ecco il chiavino di tutti gli appartamenti: questa chiavetta qui è del gabinetto in fondo alla grande galleria dell’appartamento a terreno: aprite tutto, andate dappertutto: ma, quanto al gabinetto, vi proibisco di entrarvi, e tanto ve lo proibisco che se per poco lo aprite, non c’è nulla che non vi dobbiate aspettare dal mio furore.”

Ella promise di osservare appuntino gli ordini ricevuti; il marito l’abbraccia, monta in carrozza, e via.
Le vicine e le buone amiche non aspettarono che si andasse a prenderle per correre dalla giovane sposa, tanto erano impazienti di vedere tutte le ricchezze della casa, non avendo osato venirvi quando c’era il marito, perché avevano paura di quella sua barba blu.

Eccole ora a correre, per le camere, per le guardarobe, pei salottini, tutti più belli e più ricchi gli uni degli altri. Montate più su, non si saziavano di ammirare la quantità e la bellezza degli arazzi, dei letti, dei canapè, dei gabinetti, delle mensole, delle tavole, degli specchi dove si poteva mirarsi da capo a piedi, e le cui cornici di cristallo, o di argento, o di metallo dorato, erano le più belle e magnifiche che si fossero mai viste.

Né ristavano dall’esaltare e dall’invidiare le sorte dell’amica, la quale però non si divertiva punto a veder tante ricchezze, a motivo dell’impazienza che la rodeva di andare ad aprire il gabinetto dell’appartamento a terreno.
Tanto la punse la curiosità, che senza badare alla sconvenienza di piantare in asso la brigata, infilò una scaletta segreta, e con tanta furia discese che due o tre volte fu per rompersi il collo.

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Arrivata all’uscio del gabinetto, si fermò un poco, pensando alla proibizione del marito e al pericolo della disobbedienza; ma la tentazione era così forte che non seppe resistere: prese la chiavettina e aprì tremando la porta del gabinetto.

Sulle prime, non vide niente, perché le finestre eran chiuse; ma dopo un poco cominciò a distinguere che l’impiantito era tutto coperto di sangue rappreso, nel quale riflettevansi i corpi di varie donne morte e attaccate lungo le pareti. (Erano tutte le mogli che Barbablù aveva sposato e che aveva scannato una dopo l’altra).

Più morta che viva, si lasciò scappar di mano la chiave del gabinetto, la raccattò, poi, facendo uno sforzo per riaversi, richiuse la porta, scappò in camera sua; ma non c’era verso di calmarsi, tanto era, sconvolta.

Notò che la chiavetta era macchiata di sangue, l’asciugò due o tre volte, ma il sangue non se n’andava; per quanto lavasse e fregasse con sabbia e pietra pomice, il sangue rimaneva sempre, perché la chiavetta era fatata, né c’era mezzo di pulirla a dovere: quando si levava il sangue da una par-te, lo si vedeva uscire dall’altra.

Barbablù tornò la sera stessa dal suo viaggio, e disse che via facendo aveva ricevuto lettere che gli annunziavano risoluto a suo vantaggio l’affare per cui era partito. La moglie fece il possibile per dimostrargli che era più che contenta di quel pronto ritorno.

La mattina appresso, egli le ridomandò le chiavi, e subito indovinò, vedendole tremar le mani, tutto quanto era successo. “Come va, disse, che non c’è qui la chiave del gabinetto?

— L’avrò lasciata di sopra sulla tavola, balbettò la poverina.
— Non mancate di darmela subito” disse Barbablù!

Dopo vari pretesti, bisognò pure portar la chiave. Barbablù l’osservò e disse alla moglie: “Che è questo sangue sulla chiave?

— Non ne so nulla, rispose la disgraziata, pallida come una morta.
— No? non lo sapete? lo so io allora! gridò Barbablù. Siete entrata nel gabinetto? Ebbene, signora, ci entrerete di nuovo e prenderete posto accanto alle signore che avete visto.”

Ella si gettò ai piedi del marito, piangendo, chiedendogli perdono, con tutti i segni di un vero pentimento per non avergli obbedito. Bella e afflitta com’era, avrebbe intenerito una rupe; ma Barbablù aveva il cuore più duro d’una rupe. “Bisogna morire, signora, disse e subito.

— Se così è che debbo morire, rispose ella guardandolo con gli occhi bagnati di lacrime, datemi un po’ di tempo per pregar Dio.

— Vi do mezzo quarto d’ora, riprese Barbablù, non un minuto di più.”

Rimasta sola, ella chiamò la sorella e le disse: “Sorella Anna, (che cosi si chiamava) monta, ti prego, in cima alla torre per vedere se vengono i miei fratelli: mi promisero di venire oggi stesso, e se tu li vedi, fa loro segno che si affrettino”. La sorella Anna montò in cima alla torre, e la povera afflitta le gridava di tanto in tanto: “Anna, sorella Anna, vedi venir nessuno?

— E la sorella Anna le rispondeva: “Vedo soltanto il polverio del sole e il verdeggiar dell’erba.”
Barbablù intanto, con in mano un coltellaccio, gridava sgolandosi alla moglie: “Scendi presto, o salgo io.

— Ancora un momento, di grazia” rispondeva la moglie; e subito chiamava sommesso: “Anna, sorella Anna, vedi venir nessuno?” E la sorella Anna rispondeva: “Vedo soltanto il polverio del sole e il verdeggiar dell’erba.”

— Scendi presto, gridava Barbablù, o salgo io.

— Vengo, vengo, rispondeva la moglie; e poi tornava a chiamare: “Anna, sorella Anna, vedi venir nessuno?

— Vedo, rispose la sorella Anna, una nuvola di polvere che viene da questa parte.”

— Sono i miei fratelli?

— Ahimè! no, sorella mia: è una mandria di pecore.

— Non vuoi discendere, eh? urlava Barbablù!

— Un altro momento” rispondeva la moglie, e poi chiamava: “Anna, sorella Anna, vedi venir nessuno?

— Vedo, rispose la sorella, due cavalieri che vengono da questa parte, ma sono ancora molto lontano.

— Sia lodato Id-dio! esclamò l’altra un momento dopo, sono i miei fratelli; farò segno per quanto è possibile, che si affrettino.”

Barbablù si mise a gridar così forte che tutta la casa tremava. La povera donna discese, e gli si gettò ai piedi piangente e scarmigliata. “Cotesto non giova a nulla, disse Barbablù, bisogna morire!” Poi, con una mano acciuffatile i capelli, con l’altra alzando il coltellaccio, stava lì lì per tagliarle la testa. La povera donna, alzandogli in viso gli occhi morenti, lo supplicò di accordarle un momentino per raccogliersi.

“No, no! gridò egli, raccomandati bene a Dio” e alzando il braccio… In quel punto si bussò così forte alla porta che Barbablù si arrestò in tronco. Si aprì, e si videro subito entrare due cavalieri, i quali, sguainate le spade, corsero addosso a Barbablù.

Riconobbe questi i fratelli della moglie, uno dragone, l’altro moschettiere, e scappò per salvarsi, ma i due fratelli lo inseguirono con tanta furia che gli furon sopra prima che potesse afferrar le scale. Lo passarono da parte a parte con le spade e lo lasciarono morto. La povera moglie era quasi morta quanto il marito; e non aveva forza di alzarsi per abbracciare i fratelli.

​Barbablù non aveva eredi, e così la moglie rimase padrona assoluta di tutte le sue ricchezze. Una parte ne impiegò a maritare la sorella Anna con un giovane gentiluomo che da gran tempo le voleva bene; un’altra parte a comprare due brevetti di Capitano ai fratelli; e il resto a maritarsi lei, con un uomo molto per bene, il quale le fece dimenticare il brutto tempo passato in compagnia di Barbablù.

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